Quella di Mahjabin Hakimi, uccisa per la sua passione per lo sport e per la pallavolo, è solo una delle tante tragiche storie di donne e ragazze che arrivano dall’Afghanistan. Dove, con il ritorno al potere dei talebani, come previsto la vita è diventata impossibile per l’universo femminile…
Mahjabin Hakimi aveva solamente 18 anni e, come tante sue coetanee, aveva una profonda passione per lo sport, per la pallavolo. Sembra addirittura impossibile da credere e sicuramente lo è da accettare ma proprio quella straordinaria passione le è costata la vita, per altro in maniera tragica e violenta. Purtroppo quella di Mahjabin Hakimi è solo una delle tante tragiche storie di ragazze e di donne che arrivano, per la verità con sempre maggiore fatica, dall’Afghanistan dove i talebani stanno mettendo in pratica una feroce e violenta repressione femminile, come purtroppo era sin troppo facile prevedere.
Dopo le preoccupazioni iniziali di facciata, il mondo occidentale ha deciso di spegnere i riflettori e di fregarsene di quanto avviene in quel paese. Dove per altro sta accadendo quello che tutti sapevano che sarebbe accaduto, con una vera e propria exalation delle violenze talebane che con ripugnante frequenza prendono di mira soprattutto l’universo femminile. Solo che ora che si sono spenti i riflettori non arriva più neppure l’eco di quelle barbarie, se non di rado. Come nel caso in questione, raccontato per prima dal “Times of India”, con il quotidiano britannico “The Indipendent” che poi ha riportato l’intervista di una delle allenatrici della povera 18enne afghana, che ha parlato con lo pseudonimo di Suraya Afzali, che ha fatto ulteriormente luce sulla vicenda.
Mahjabin Hakimi prima del crollo del precedente governo e dell’avvento dei talebani giocava nella squadra di pallavolo femminile di Kabul (Kabul Municipality Volleyball Club) e chi l’ha vista giocare sostiene che fosse anche brava, una delle migliori della sua squadra e tra le giovani più promettenti del paese, al punto che aveva anche vinto diversi premi individuali in alcune competizioni internazionali a cui aveva partecipato con la sua squadra. Una grande soddisfazione ed un comprensibile motivo di orgoglio che, però, alla fine di è drammaticamente rivelato anche la ragione della sua tragica fine. E’, infatti, ben nota la concezione che gli studenti coranici hanno delle donne, il ruolo che attribuiscono al genere femminile.
Non devono mostrarsi in pubblico sena hijab, devono dedicarsi esclusivamente alla vita domestica, uscire solo se accompagnate da parenti stretti e, naturalmente, nessuna velleità di lavorare, di fare sport o qualsiasi altro genere di attività. Così, da quando hanno preso il potere nell’agosto scorso, i talebani hanno iniziato a dare la caccia alle atlete, in particolare a quelle che avevano partecipato a competizioni internazionali ed avevano una certa visibilità, con il chiaro obiettivo di punirle in maniera violenta per fungere da esempio per chi ancora aveva velleità del genere. Hakimi sapeva bene di essere un bersaglio, a maggior ragione per il fatto che, oltre a giocare a pallavolo, aveva anche prestato servizio come militare (altra condizione assolutamente inaccettabile per gli studenti coranici).
Per questo dopo la caduta di Kabul aveva disperatamente cercato di fuggire dall’Afghanistan, come era riuscito a due sue compagne di squadra (una delle quali era stata salvata a settembre dall’ex ct della nazionale di pallavolo Mauro Berruto). Purtroppo, però, Hakimi non c’è riuscita e alla fine i talebani sono riusciti a trovarla e, ad inizio ottobre, l’hanno giustiziata. Non solo, nei giorni scorsi a livello locale hanno anche diffuso le orribili immagini del suo cadavere con la testa mozzata come monito per tenere lontane dallo sport le donne afghane. Inoltre hanno imposto ai parenti della ragazza di mantenere il più assoluto riserbo, minacciandoli in caso contrario di ulteriori sanguinose ritorsioni.
A raccontare la drammatica storia di Hakimi un suo allenatore ovviamente sotto falso nome che ha anche denunciato la disperata situazione delle altre pallavoliste e di tutte le altre atlete afghane. “Sono tutte in una brutta situazione – ha spiegato – disperate e spaventate. La maggior parte di loro è fuggita dalle proprie case nel timore di essere prese e giustiziate e vive nascondendosi, in luoghi sconosciuti anche ai parenti”.
Sembra impossibile che accada una cosa del genere nel terzo millennio, purtroppo è la drammatica verità. Ed ancora più tragico è il fatto che non è neppure una sorpresa, sta accadendo esattamente quello che si sapeva che sarebbe accaduto quando si è lasciato che i talebani tornassero al potere. Ad agosto era trapelata la notizia dell’uccisione a colpo di pistola di un’altra giocatrice di pallavolo, ad inizio settembre si era parlato di calciatrici e ginnaste che avevano fatto la stessa drammatica fine, pur senza che arrivassero conferme ufficiali.
La realtà, drammaticamente cruda, dice che le donne che nei mesi e negli anni precedenti hanno praticato sport rischiano concretamente la vita. Ma più in generale è drammatica la condizione femminile in Afghanistan, come era ampiamente previsto e prevedibile. Nelle ore scorse, quando si è diffusa anche in Italia la notizia della tragedia di Hakimi, la Federazione italiana pallavolo ha deciso di effettuare un minuto di silenzio in tutti i campi di pallavolo nel fine settimana. Un pensiero doveroso ma insufficiente. La scorsa settimana la Fifa, insieme al governo del Qatar, ha provveduto all’evacuazione dall’Afghanistan di 100 calciatrici, la maggior parte nel giro della nazionale, e dei loro familiari.
“Guardatela come se fosse vostra figlia – ha commentato Mauro Berruto – Hakimi Mahjabin è stata decapitata perché hazara e perché giocava a pallavolo senza hijab. Questo è oggi l’Afghanistan. Abbiamo lasciato lì persone che sono cadaveri ambulanti. Fermiamo questo genocidio con i corridoi umanitari o ne saremo responsabili”