“Quel video è un orrore, un’offesa ad ogni donna ma soprattutto un brutto segnale di una mentalità che dopo anni di lotte non cambia. Grillo utilizza un linguaggio che si usava secoli fa, colpevolizzare la donna per scagionare il maschio” accusa la presidente di Telefono Rosa
E’ davvero difficile esprimere in pieno il senso di nausea, il profondo ribrezzo e l’incontenibile indignazione che provocano il video e le parole di Beppe Grillo in relazione alla vicenda che vede il figlio, insieme ad altri coetanei, accusato di stupro nei confronti di una ragazza italo-svedese di 19 anni. Potremmo usare le parole della presidente di Telefono Rosa, Rosa Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, che da 30 anni combatte per proteggere le donne e i loro figli dalla violenza di genere.
“Quel video sposta indietro di 100 anni le lancette della storia – afferma – calpesta tutto quello che finora è stato fatto per dar voce ai diritti delle donne. Quel video è un orrore, un’offesa ad ogni donna ma soprattutto un brutto segnale di una mentalità che dopo anni di lotte non cambia. La vittima viene ancora messa sul banco degli imputati”. Purtroppo non è una novità, per certi versi c’è poco da stupirsi, forse la sorpresa arriva più dall’autore del video che dai concetti e dal delirante messaggio che lancia.
Che è perfettamente in linea con i titoli e gli articoli intrisi del più becero e deteriore maschilismo che abbiamo letto nei mesi scorsi su alcuni “giornalacci” di destra che hanno giustamente scatenato reazioni forti nei confronti dei loro autori (i vari Feltri, Belpietro, Facci, Senaldi), con quella insulsa riproposizione dei più vomitevoli luoghi comuni che vogliono la vittima di stupro in qualche modo corresponsabile o addirittura non più da considerare come tale perché era vestita in maniera provocante o perché andava in giro ad ora tarda o anche perché ha accettato di andare bere con uno sconosciuto.
Il messaggio che trasmette Grillo con quel video non è certo differente, non è meno carico di elementi devastanti, in particolare quello che ripropone la concezione della donna come strumento del divertimento maschile, con le solite ignobili allusioni all’insegna del “prima se l’è spassata poi si è pentita e ha denunciato per pulirsi la coscienza” (o peggio ancora per chissà quale altro subdolo fine). E non può certo attenuare la vergogna l’appellarsi, come ha fatto qualcuno, a quel naturale sentimento di solidarietà umana nei confronti di un padre che si trova a fare i conti con una situazione del genere in cui è coinvolto il figlio. Chiunque è padre o genitore umanamente non può non comprendere lo stato d’animo e la sofferenza di Grillo.
Nulla, però, può giustificare quell’ignobile video, quelle deliranti affermazioni. “Capisco il sentimento che può provare un padre in queste circostanze – aggiunge la Moscatelli – ma è inaccettabile che per proteggere il figlio ha usato slogan che si pensava che fossero superati. E’ andato ad utilizzare un linguaggio che si usava secoli fa, colpevolizzare la donna per scagionare il maschio”. In particolare ci sono dei passaggi di quel video che definire ripugnanti è addirittura riduttivo.
“E’ strano, è andata a fare kitesurf la mattina dopo e ci ha messo otto giorni per denunciare” afferma Beppe Grillo nel video. “Parole disumane” ha sottolineato il leader dei Maneskin, Damiano David, su Instagram. Parole vergognose, aggiungiamo, che esprimono concetti di una gravità e di una violenza inaudita. Che una donna che non denuncia immediatamente uno stupro sia meno vittima o, addirittura, non lo sia per nulla è un concetto abominevole, un’atroce e inaccettabile banalizzazione di una vicenda che non può essere banalizzata, come se ci possa essere un limite temporale, per chi ha subito un simile stravolgente evento, entro il quale si può denunciare una violenza.
“Evidentemente Grillo non sa quanto è difficile per una ragazza rendere pubblica la violenza subita – spiega la presidente di Telefono Rosa – i sentimenti che provano le donne violentate sono tanti. C’è il terrore, la vergogna, la paura di non essere credute e la certezza che nulla sarà più come prima”. Non meno rivoltante è un altro passaggio di quel video, quello nel quale Beppe Grillo afferma che “si vede che c’è il gruppo che ride, che sono ragazzi di 19 anni che si stanno divertendo, che sono in mutande e saltellano col pisello così perché sono quattro coglioni, non quattro stupratori”.
Parole figlie di una cultura profondamente maschilmente ancora così radicata nella nostra società. In questo senso andiamo oltre le responsabilità penali, ovviamente tutte da accertare, ma come spiega Lorenzo Tosa “non c’è nulla di divertente in quattro ventenni in mutande attorno ad una coetanea sola, in posizione di estrema sudditanza fisica e psicologica, ma solo la rappresentazione fallocentrica di una società che nel 2021 stiamo lottando per cancellare”. Frasi simili le abbiamo ascoltate troppe volte, in questa o in qualche altra forma, ogni volta che un uomo parla della vittima di violenza sessuale.
Naturalmente la massima riprovazione e il senso di profondo schifo che suscita il video Grillo non vogliono e non devono in alcun modo essere interpretati come una sorta di sentenza anticipata, come l’affermazione della sicura colpevolezza del figlio del comico genovese e degli altri ragazzi coinvolti. Come sempre, come dovrebbe essere sempre in una società civile, sarà il tribunale il luogo deputato a fare la massima chiarezza sulla vicenda, saranno i giudici a stabilire se quei ragazzi sono colpevoli o innocenti. Non certo da ora abbiamo sempre rivendicato con orgoglio il nostro più assoluto “garantismo”, a prescindere dalla simpatia o dall’antipatia che possiamo provare nei confronti di chi è sotto accusa.
Per questo non possiamo che ribadire un concetto per noi “sacro”, cioè la presunzione di innocenza che deve valere fino a che non ci sarà una sentenza definitiva. E, naturalmente, la famiglia Grillo ha tutto il diritto di supportare il proprio figlio, di battersi per fare in modo che quella che ritengono essere la verità venga fuori inequivocabilmente. Ma devono farlo nelle sedi appropriate, cioè nelle aule di un tribunale e non sui social, e ovviamente con ben altre argomentazioni. Per estrema coerenza non vogliamo in alcun modo entrare o discutere nel dettaglio della vicenda, come invece hanno fatto quasi tutti gli organi di informazione replicando a quanto affermato da Grillo e sostenendo che in realtà ci sarebbero molti altri elementi (e anche il video stesso si presterebbe a ben altra lettura).
Sono aspetti di cui si occuperà (anzi, si sta già occupando) chi svolge le indagini e che eventualmente saranno dibattuti nel corso del procedimento in aula. Piuttosto, pur se secondari rispetto al resto, dal video di Grillo emergono alcuni aspetti prettamente politici che non possono certo essere ignorati. Su tutti l’imbarazzante ribaltamento di quel sentimento definito “giustizialista” che è sempre stato un principio indiscutibile del comico genovese ed uno dei principali fondamenti del Movimento 5 Stelle. Nessuno ha dimenticato le durissime battaglie portate avanti in proposito quando coinvolti nelle inchieste erano i familiari di qualsiasi personaggio politico. Ora il ribaltamento dei ruoli è semplicemente imbarazzante, il familiare del politico diventa il buono, i magistrati che indagano e giornalisti che ne danno notizia si trasformano nei cattivi. E’ sin troppo semplice sottolineare che così è troppo comodo, facile sparare sugli altri per poi fare indecorosamente marcia indietro quando qualcosa di simile ti tocca da vicino. Al di là delle legittime simpatie politiche che ognuno coltiva, questa volta è davvero impossibile non essere d’accordo con Maria Elena Boschi.
“Questo modo di concepire la giustizia, giocandola sui social e non nelle aule di tribunale, è aberrante – sottolinea l’esponente di Italia Viva – è quello che Grillo ha sempre fatto con i suoi seguaci: si chiama giustizialismo. Io invece aspetto e rispetto le sentenze come tutti i cittadini. Quando mio padre è stato indagato Grillo e i grillini lo hanno massacrato. Noi abbiamo aspettato le decisioni dei giudici, rispettando il loro lavoro. E alla fine è stato archiviato. Dovrebbe fare la stessa cosa Grillo, è meglio credere nella giustizia anziché fomentare l’odio con il giustizialismo. Per me Ciro Grillo è innocente fino a sentenza passata in giudicato. Grillo invece è colpevole di aver creato un clima d’odio vergognoso. Odio contro di me, contro mio padre, ma soprattutto contro tanti italiani che non possono difendersi perché privi della stessa visibilità”.
Troppo evidente e imbarazzante la colossale incoerenza di un simile atteggiamento, troppo grave il fatto che molti esponenti di spicco del Movimento 5 Stelle hanno invece espresso la massima solidarietà nei confronti del loro leader. Troppo facile indignarsi quando ad usare quei beceri toni maschilisti sono giornali e giornalisti “avversari”, troppo semplice esprimere certe posizioni intransigenti solo quando ad essere coinvolti sono esponenti politici (o loro familiari) di altri partiti. Per altro ci sarebbe anche da sottolineare che, probabilmente senza rendersene conto, Grillo ha cercato di ridicolizzare uno delle principali battaglie condotte e portate a termine dal Movimento 5 Stelle. Perché proprio la nuova legge del “Codice rosso”, firmata dal ministro grillino Bonafede, ha raddoppiato i tempi per le querele e le denunce in casi del genere da 6 mesi ad 1 anno.
Senza troppi giri di parole, dopo un simile gravissimo “autogol” non dovrebbero esserci dubbi sul fatto che la “carriera politica” di Grillo debba essere considerata al capolinea.