Prima di provare a riprenderci una vita il più possibile simile a quella interrotta a fine febbraio, è doveroso dedicare un pensiero alle oltre 30 mila persone che non ce l’hanno fatto. A partire dagli oltre 200 tra medici e infermieri e da un’intera generazione di anziani
“I morti non fanno più rumore del crescere dell’erba” scriveva Giuseppe Ungaretti nella sua straordinaria poesia “Non gridate più”, scritta alla fine della seconda guerra mondiale. L’assordante silenzio e l’angosciante solitudine vissute da tanti di coloro che se ne sono andati a causa di questa pandemia sono tra gli aspetti più drammatici di questa strage provocata dal coronavirus nel nostro paese. Quel triste silenzio evocato da Ungaretti in questo caso è soprattutto espressione del senso di abbandono che ha caratterizzato gli ultimi attimi di vita di molte delle oltre 30 mila vittime del virus.
Non a caso la Federazione dell’ordine dei medici apre il triste elenco, listato a lutto, dei medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid -19, pubblicato (e purtroppo in continuo aggiornamento) sul portale FNOMCeO, proprio con alcuni versi di quella poesia. Ad oggi sono complessivamente 156 e insieme all’ecatombe di anziani costituiscono sicuramente il più grande cruccio di questo periodo. Avremmo voluto aprire questa domenica 10 maggio, la prima della cosiddetta fase 2, con ben altro spirito, con l’ironia e il sorriso che provoca la rubrica “La domenica del villaggio”.
Da quando è iniziata la pandemia e il bollettino quotidiano della protezione civile ha iniziato a snocciolare il drammatico consuntivo dei morti, abbiamo deciso di sospenderla, non c’era lo spirito giusto per sorridere, per fare irriverente ironia. Ora che siamo nel pieno di questa seconda fase che pian piano, fatti tutti gli scongiuri del caso, ci dovrebbe progressivamente condurre al ritorno ad una vita sempre più simile a quella bruscamente interrotta a fine febbraio, tornare a scrivere con una certa “leggerezza” ci sembrava di buon auspicio, a suo modo un segnale di un lento ritorno alla normalità.
Ma, prima di farlo, ci sembra più che doveroso, il minimo che potessimo fare, dedicare un pensiero, ricordare quanti purtroppo non ci sono più perché non ce l’hanno fatta, sopraffatti dal virus. E lo è ancor più in considerazione del fatto che questo comprensibile desiderio di riprenderci la nostra vita ci porta a voler dimenticare in fretta quelle vittime. Non vogliamo, invece, soffermarci più di tanto su quanti ancora oggi, per ignoranza, per propaganda o per interessi politici, provano a tutti i costi a sminuire la portata di quanto stiamo vivendo, facendo balenare chissà quale folle oscuro disegno.
Argomenti vuoti e privi di qualsiasi concreto appiglio, utilizzati per fini chiaramente politici ma che finiscono per offendere quelle 30 mila vittime e le loro famiglie. Che, invece, sono a lì a testimoniare drammaticamente lo tsunami che si è abbattuto su questo paese (e non solo). E, allora, in questa domenica di maggio prima di ogni altra cosa, di ogni altra considerazione vogliamo ricordare quelle persone che non ci sono più, partendo proprio dal personale sanitario, quello che nelle settimane scorse in tanti hanno definito i nuovi eroi.
Come abbiamo sottolineato al momento sono 156 i medici morti, un numero impressionante a cui bisogna aggiungere una cinquantina di infermieri (il 30% di loro lavorava in strutture per anziani). Non vengono conteggiati tra i morti per coronavirus, invece, 2 infermieri che si sono suicidati, che non hanno retto allo stress, al dolore di vivere in prima persona qualcosa che non avrebbero mai immaginato di vivere, che probabilmente pensavano potesse accadere solo nei film. Non c’è mai piaciuta l’enfasi eccessiva che accompagna certe definizioni nei momenti di emergenza, ma in questo caso non è così fuori luogo definirli a loro modo degli eroi.
Quel che è certo è che sono morti per svolgere il proprio dovere, spesso in condizioni precarie, con turni di lavoro massacranti. “Non possiamo più permettere che i nostri medici, i nostri operatori sanitari, siano mandati a combattere a mani nude contro il virus. E’ una lotta impari, che fa male a noi, fa male ai cittadini, fa male al paese” afferma il presidente della Federazione dell’Ordine dei medici, Filippo Anelli. Vale la pena sottolineare come i medici di famiglia sono una delle categorie professionali più colpite dal contagio e che ha pagato un alto tributo di vite al coronavirus, costretti spesso ad operare senza alcuno strumento di protezione individuale.
Tra quei 156 morti, inoltre, ci sono diversi medici pensionati che, vista la situazione di gravissima emergenza, sono stati richiamati in attività o hanno volontariamente risposto alla chiamata di aiuto, pagando a caro prezzo la loro generosità. “Non si smette mai di essere medici, lo si resta sino in fondo e per tutta la vita” commenta Anelli. Proprio la testimonianza diretta di alcuni dei medici e degli infermieri impegnati in prima linea ha portato alla luce uno degli aspetti più sconvolgenti di questa pandemia.
“Decidiamo chi curare, come in guerra” hanno raccontato medici e infermieri lombardi nel momento in cui l’epidemia aveva raggiunto l’apice. E’ di quel periodo un documento per certi versi “agghiacciante” che ha scatenato infinite discussioni e polemiche. Stiamo parlando di quello, reso noto da alcuni quotidiani, della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti) nel quale si spiegava che, in caso di ulteriore peggioramento della situazione, sarebbe stato inevitabile il sacrificio di molte persone a causa dell’età e della loro fragilità.
“Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva – si legge in quel documento – non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata, in un’ottica di massimizzazione dei benefici per il maggior numero di persone”. Non vogliamo esprimere giudizi di merito, per quanto terrificante possa apparire quella considerazione non possiamo non comprenderne (pur con un forte senso di disagio) il senso. Però per certi versi oggi, di fronte ai dati che ci dicono come la maggior parte di quei 30 mila morti sono anziani, il disagio e l’angoscia crescono.
Anche ripensando a quando, ad inizio pandemia, coloro che cercavano di sminuire il problema, di ridimensionare l’allarme ripetevano che in fondo “muoiono solo gli anziani”. Come se fosse un particolare di poco conto, sono anziani se muoiono non sarà poi una gran tragedia… Non sappiamo se poi nella realtà in alcuni ospedali è accaduto davvero che si sia scelto chi provare a curare, sacrificando i più anziani. E’ più che probabile che in qualche caso sia davvero accaduto e alcune testimonianze in proposito lo confermerebbero. Quello che invece sappiamo di sicuro è che c’è stata una vera e propria strage di anziani nelle Rsa.
Una volta si chiamavano ospizi e, pur se non era sempre così, facevano pensare ad una situazione di abbandono dell’anziano. Ora il nome Residenza sanitaria assistita fa pensare a strutture più accoglienti ma sin da prima di questa emergenza sapevamo già che non tutte sono poi realmente così “confortevoli” per i nostri anziani. Altro fatto che sappiamo con certezza è che la maggior parte di loro se ne è andata nella più assoluta e sconfortante solitudine, senza avere neppure l’opportunità di un ultimo saluto ai propri cari.
Un peso che resterà per sempre nella mente e nei cuori di chi non ha neppure potuto piangere la mamma o il papà deceduto. “Abbiamo solo ricevuto la bara con il certificato di morte, non sapere chi è in quella bara è peggio” racconta una 50enne di Bergamo la cui madre è morta dopo aver contratto il coronavirus nella casa di riposo in cui era ospite. Di storie tristi e commoventi in queste settimane ne abbiamo ascoltate e lette tantissime, qui ci piace ricordare quella di Alberto e Antonietta, rispettivamente 81 e 80 anni, sposati da oltre 50 anni e indissolubilmente uniti anche nel momento della dipartita. Alberto a fine febbraio era risultato positivo, alcuni giorni dopo le sue condizioni sono precipitate ed è stato trasportato all’ospedale di Crema.
Il giorno dopo, quasi all’improvviso, anche Antonietta è stata ricoverata in ospedale (a Lodi). Il mattino del 7 marzo Alberto se ne è andato, poco meno di 2 ore dopo anche Antonietta ha cessato di vivere. Ci sono paesi della Lombardia dove il coronavirus si è portato via quasi un’intera generazione di nonni. A Casalmorano, a Stagno Lombardo, a Nembro, a Leffe quasi un terzo della popolazione anziana non c’è più.
“Il coronavirus s’è portato via la nostra memoria, svanita con i vecchi e gli anziani che soli se ne sono andati, privi del conforto dei loro cari e di un addio religioso. Erano il sale di questa terra per chi sapeva vivere la loro presenza come una ricchezza. Disonorarli è come restare indifferenti davanti a chi si affaccia alla vita” scrive l’ex direttore del Secolo d’Italia Gennaro Malgieri. Salutarli e ricordarli (naturalmente insieme a tutte le altre vittime di questa pandemia) con affetto e commozione è il minimo che si possa fare prima di provare a riprendere faticosamente una vita il più possibile normale.
Ed il modo migliore per farlo è condividendo l’ultimo passo di quel pensiero che nelle settimane scorse ha spopolato sui social media, provocando comprensibile emozione: “l’Italia intera deve dirvi grazie e accompagnarvi in quest’ultimo viaggio con 60 milioni di carezze”.