“Non vogliamo più avere paura”: il monologo di Rula Jebreal illumina Sanremo


Dopo le stucchevoli polemiche per la sua presenza al festival, la giornalista palestinese sul palco dell’Ariston presenta uno struggente monologo sulla violenza di genere. Raccontando la drammatica storia della madre e rivolgendosi agli uomini: “Siate nostri complici”

Domani chiedetevi pure al bar: “Com’era vestita Rula?” Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”. E’ davvero difficile trovare le parole giuste per poter descrivere le sensazioni e le emozioni che ha regalato lo straordinario monologo di Rula Jebreal sul palco del teatro Ariston di Sanremo. Chi, ascoltando le parole della giornalista e scrittrice palestinese, stasera non ha provato determinate emozioni probabilmente non può essere neppure definito un essere umano.

Non ci ha mai particolarmente appassionato il festival di Sanremo, meno che mai le sterili polemiche, le voci, le “chiacchiere” che lo accompagnano. Al punto che quasi casualmente ci siamo imbattuti con il momento della prima serata del festival quando Rula Jebreal ha presentato il suo monologo contro la violenza sulle donne. Ma erano anni che il piccolo schermo non ci regalava certe emozioni, ci eravamo dimenticati che anche nel nostro sempre più malandato paese può capitare di assistere a stralci di tv di straordinaria qualità.

La presenza della giornalista palestinese a Sanremo, prima annunciata poi momentaneamente cancellata poi di nuovo confermata, era stata accompagnata dalle solite stucchevoli polemiche politiche. Salvini e la Lega in prima fila, ma anche la Meloni e Fratelli d’Italia erano insorti, non si capisce bene per quale ragione. Addirittura la leader di FdI, ancora poche ore prima che iniziasse la prima serata, aveva superato il limite del ridicolo lamentando che la Jebreal non avrebbe avuto contraddittorio sul palco dell’Ariston.

Eppure la giornalista palestinese aveva più volte annunciato che avrebbe parlato di quella che è una drammatica emergenza non solo del nostro paese (6 “femminicidi” solo nell’ultima settimana) ma di gran parte del pianeta, cioè le violenze contro le donne. Chissà, forse per far contenta la Meloni la rai avrebbe dovuto chiamare sul palco dell’Ariston qualche uomo condannato per aver picchiato o stuprato una donna… E’ davvero sconfortante ascoltare i nostri leaders politici “sparare a zero” senza avere la minima cognizione di quello che dicono, senza minimamente preoccuparsi di informarsi seriamente prima di parlare a sproposito.

Rula Jebreal è una giornalista che si è sempre distinta per il suo impegno civile e che si è sempre occupata dei diritti delle donne. E presentando quello struggente monologo sulla violenza di genere ha trattato un argomento che la tocca da vicino. Lo ha fatto in maniera straordinaria, coinvolgente, alternando frammenti di storie vere, anche riguardanti la sua famiglia, a brani di alcune delle più belle canzoni italiane dedicate alle donne (“La cura” di Franco Battiato, “La donna cannone” di Francesco De Gregori, “Sally” di Vasco Rossi, “C’è tempo” di Ivano Fossati).

Soprattutto mettendo a nudo con straordinaria efficacia alcuni insopportabili stereotipi e luoghi comuni semplicemente umilianti per le donne. Se per una volta si potesse mettere da parte la propaganda politica, il tifo di parte, sarebbe bello che chi ha criticato la sua presenza a Sanremo abbia ora il coraggio e la coscienza di renderle omaggio.

Noi proviamo a farlo pubblicando il testo integrale del suo monologo. Naturalmente non avrà lo stesso impatto che avuto ascoltandolo direttamente dalla giornalista palestinese. Ma, siamo certi, anche così saprà suscitare le giuste emozioni (tra parentesi i brani delle canzoni citate)

“Lei aveva la biancheria intima quella sera? Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina? Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans? Se le donne non vogliono essere sfruttare devono smetterla di vestirsi da poco di buono. Queste sono solo alcune delle domande poste in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, melliflue, che sottintendono una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti.

Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo troppo belle o troppo brutte perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta. (“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo. Perché sei un essere speciale Ed io, avrò cura di te”- La cura).

Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate. Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole.

Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri. E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina. (“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno Giuro che lo farò E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò Quando la donna cannone D’oro e d’argento diventerà Senza passare dalla stazione L’ultimo treno prenderà”- La donna cannone).

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa (“Sally ha patito troppo Sally ha già visto che cosa Ti può crollare addosso Sally è già stata punita Per ogni sua distrazione o debolezza Per ogni candida carezza Data per non sentire l’amarezza” Sally).

Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza.

All’idea più grande di tutte: quella di libertà. Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere: madri di dieci figli e madri di nessuno, casalinghe e carrieriste, madonne e puttane, lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto? (“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato Una stagione ribelle L’istante in cui scocca l’unica freccia Che arriva alla volta celeste E trafigge le stelle È un giorno che tutta la gente Si tende la mano È il medesimo istante per tutti Che sarà benedetto, io credo Da molto lontano” – C’è tempo).

Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è necessario parlare. Certo ho messo un bel vestito. Domani chiedetevi pure al bar “Com’era vestita Rula?”. Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?”. Mia madre ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne. E noi non vogliamo più avere paura. Vogliamo essere amate. Lo devo a mia madre, lo dobbiamo a noi stesse, alla nostre figlie. Nessuno può permettersi il diritto di addormentarci con una favola. Vogliamo essere note, silenzi, rumori, libere nel tempo e nello spazio. Vogliamo essere questo: musica”.

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