Mentre il pool di esperti del ministero, ha deciso che per ridurre le attese al Pronto Soccorso basta passare dai numeri ai colori per individuare le priorità di accesso, l’odissea di un ottantenne al Pronto Soccorso di Ascoli dimostra che c’è bisogno di tutt’altro…
L’annuncio è di quelli da accogliere con soddisfazione: niente più attese infinite al Pronto Soccorso. E’ quello che dovrebbe succedere a breve, almeno secondo l’entusiastico racconto fatto sabato 6 luglio da quasi tutti i quotidiani nazionali. A fine mese la conferenza Stato-Regioni darà il via libera al piano per la gestione del sovraffollamento dei Pronto Soccorso, elaborato da un apposito tavolo di esperti scelti dal ministero della salute, che, in sostanza, prevede il passaggio dai colori ai numeri per individuare i codici che definiscono la priorità d’accesso. Sarebbe sin troppo facile fare ironia, ci sarebbero tantissime cose da sottolineare.
Quello che, però, appare certo è che i componenti del cosiddetto pool di esperti non hanno mai messo piede concretamente in un Pronto Soccorso. Perché in caso contrario saprebbero perfettamente che non è certo passando dai colori ai numeri, né tanto meno stabilendo per ognuno di quei numeri un tempo massimo di attesa che si può migliorare il servizio. Serve ben altro, servono innanzitutto cospicui e massicci investimenti, servono strutture, serve personale qualificato e serve un’organizzazione completamente differente.
A tal proposito è interessante raccontare la cronaca di un giorno di “ordinaria follia” al Pronto Soccorso dell’ospedale Mazzoni di Ascoli, un’odissea di quasi 20 ore vissuta da un anziano ultraottantenne che dovrebbe far riflettere e che rende evidente, a chi ancora non l’avesse capito, come non sia questione di numeri o colori.
Tutto ha inizio la notte tra mercoledì e giovedì scorso quando, intorno alle 3, quell’ottantenne, che accusa forti dolori al petto, chiama immediatamente il 118. Dopo la prima rapida visita, il medico a bordo dell’ambulanza lo rassicura ma ritiene opportuno portarlo in ospedale, vista l’età e visti i precedenti dell’uomo, vittima di un arresto cardiaco qualche anno prima. Non sono ancora le 4 del mattino quando arriva, in ambulanza, in un Pronto Soccorso a quell’ora vuoto, con solamente una persona in attesa. Viene immediatamente sottoposto a visita, con tanto di elettrocardiogramma, prelievo di sangue venoso, prelievo arterioso e emogas analisi arteriosa.
Dai primi accertamenti non sembra essere in presenza di un problema cardiaco ma in questi casi è opportuna la massima prudenza. Viene, quindi, richiesta visita specialistica di cardiologia e, intanto, l’uomo viene sottoposto a raggi al torace che evidenziano una piccola velatura del seno costo frenico sinistro. Sono circa le 6 del mattino quando, dopo i raggi, l’uomo viene sistemato in attesa in una stanza, nei pressi delle sale visite, riservata ai pazienti del Pronto Soccorso in attesa di effettuare ulteriori analisi e prestazioni diagnostiche e di avere i successivi referti.
La stanza, spoglia e con un paio di tende che dovrebbero (il condizionale è quanto mai d’obbligo…) consentire di mantenere un minimo di privacy, dovrebbe poter ospitare non più di tre pazienti e a quell’ora è momentaneamente vuota. Inizia per quell’anziano (e per la moglie che lo assiste) una lunga attesa, sulla lettiga in quella stanza. Dopo un paio di ore di attesa, intorno alle 8, viene sottoposto a Tropinina I (il marker specifico e sensibile per l’individuazione delle necrosi delle cellule miocardiche). Viene riportato nella stanza che, intanto, ospita altri tre pazienti. E nella quale ora non c’è più a disposizione per lui una lettiga o un letto, quindi deve accontentarsi di una sedia.
Con il passare del tempo in quella stanza arrivano un altro paio di pazienti, ovviamente anche loro costretti a stare su una sedia. La situazione è chiaramente insostenibile, in una stanza così piccola sono ammassati 5-6 pazienti con i rispettivi familiari che li assistono. Una sorta di girone dantesco, dove la privacy di chi è già in una condizione di chiara difficoltà viene ignobilmente violata. Ad aggravare una situazione già inaccettabile c’è, poi, il fatto che, nonostante all’ingresso ci sia un cartello che ricorda che ogni paziente può essere assistito da non più di una persona, nella stanza praticamente entra e si ferma chiunque, senza che nessuno si preoccupi di far rispettare quanto disposto.
Il culmine dell’indecenza si tocca quando quell’anziano manifesta la necessità di effettuare dei bisogni fisiologici, nell’impossibilità di andare in bagno. Gli viene “gentilmente” fornita dalle infermiere una padella, da utilizzare davanti a tutti, gli altri pazienti e i sempre più numerosi assistenti.
Una situazione che definire umiliante è a dir poco riduttivo, una vergogna inaccettabile, sembra che in quella stanza la dignità e il rispetto di quei pazienti debbano essere annientati, sembra che non ci sia limite all’indecenza. Al punto che chi è vittima di questo ignobile trattamento non ha neppure la forza di protestare, subisce rassegnato, lamentandosi ogni tanto per la totale assenza di privacy, per l’attesa troppo lunga, per il fatto che nessuna si degna di fornirgli anche la minima indicazione. Ma tutto sempre in maniera sommessa, quasi per non voler disturbare.
Alle 11:30, 5 ore dopo la richiesta del medico del P.S., finalmente l’uomo viene portato in Cardiologia per la visita specialistica. Che sembra escludere problemi cardiaci ma consiglia di far visionare i raggi al torace allo pneumologo (vista la presenza di quella piccola velatura) e di presentare un precedente elettrocardiogramma per metterlo a confronto con quello effettuato all’arrivo in ospedale.
E’ quasi mezzogiorno quando l’anziano viene nuovamente portato al Pronto Soccorso, con l’infermiera che l’accompagna che lo porta davanti ad una delle sale visite, dicendogli che al termine della visita in corso sarebbe stato nuovamente visitato dal medico di turno al P.S. Nell’attesa viene riportato in quella stanza, in quella situazione disumana, dove trova qualche paziente nuovo rispetto a prima ma non certo un minore affollamento. Passa il tempo, nella sala visite continuano ad entrare ed uscire sempre nuovi pazienti ma, inspiegabilmente, non sembra mai essere il turno di quell’anziano. Che, intanto, inizia a manifestare problemi di profonda stanchezza, non ce la fa più a stare sulla sedia e ha bisogno di stendersi un po’.
La moglie, non meno stanca di lui da ormai 10 ore al suo fianco, chiede un lettino o una lettiga ad un’infermiera, sentendosi rispondere che “non serve, gli fa bene stare sulla sedia!”. Sono ormai le 14 quando, chiedendo ad un’infermiera quando sarebbe stato visitato dal medico di turno, l’uomo scopre che non è più in programma la visita. “Tra poco ripeteremo la Troponina I e se il risultato sarà nuovamente negativo potrà andare a casa” risponde sorprendentemente l’infermiera.
Mezz’ora dopo viene sottoposto a quell’esame e gli viene ribadito che poi, una volta avuto il risultato, verrà dimesso (ovviamente in caso di esito ancora una volta negativo). Riprende la lunga e snervante attesa, in quella sempre più affollato stanza che intanto ha visto l’ingresso di nuovi pazienti. Trascorre circa un’ora quando, sempre in attesa dell’esito della Troponina I, l’anziano viene accompagnato in Pneumologia per la visita e per far visionare i raggi ad uno specialista. Poi ricomincia l’attesa, passano le ore ma l’esito di quell’esame non arriva (o per lo meno non gli viene comunicato).
All’improvviso, intorno alle 18, si presenta nella stanza di attesa un’infermiera che gli comunica che deve sottoporsi ad un nuovo esame, l’angio tc dell’aorta toracica. Alla stanchezza, allo scoramento inevitabilmente si aggiunge la preoccupazione, la sua e della moglie che gli è a fianco, il sospetto che quel nuovo esame debba essere effettuato perché è emerso qualche problema. Ma ai suoi dubbi, alle sue richieste di spiegazioni nessuno risponde, nessuno si degna di fornire una minima spiegazione.
Fatta la visita, con esito fortunatamente confortante, viene nuovamente riportato in quella stanza che continua ad essere iper affollata tra pazienti e assistenti. Un altro paio d’ore di attesa, sempre senza avere alcun genere di informazione, poi finalmente intorno alle 20 viene nuovamente portato in una della sala visita dove il medico di turno gli comunica che può essere dimesso, dopo quasi 18 ore trascorse al Pronto Soccorso.
Senza dilungarci più di tanto, è evidente che questa storia dovrebbe indurre qualche riflessione.
La prima, la più ovvia, è che, al di là delle carenze di spazi e di strutture, è comunque inammissibile che chi si trova in quella condizione possa essere trattato come un pacco postale. Il rispetto della privacy, fondamentale per chi si trova in una simile situazione, la necessità di garantire al paziente dignità e decoro è il minimo che si possa pretendere. Al di là dei comportamenti delle singole persone, non è in alcun modo accettabile tenere in quelle condizioni per ore dei pazienti, ancor più se anziani.
E’ sicuramente positiva e apprezzabile l’attenzione con è stato seguito quell’anziano, sottoposto per precauzione e con serietà ad ogni genere di esame per valutare approfonditamente la sua condizione. Ma è altrettanto evidente che un’organizzazione migliore del lavoro avrebbe permesso di effettuare quelle prestazioni e quegli esami in un lasso di tempo molto minore (considerando che è necessario attendere 6 ore per ripetere la Troponina I, intorno alle 14 tutto poteva essere concluso).
Naturalmente perché ciò possa accadere sono necessari strutture migliori e maggior personale, soprattutto qualificato. In altre parole servono maggiori investimenti, bisogna spendere più soldi per potenziare e migliorare la qualità dei Pronto Soccorso. Non certo iniziative folkloristiche ed estemporanee, come il passaggio dai colori ai numeri.