I giudici della Corte di Appello di Ancona assolvono due ragazzi (condannati in primo grado) dall’accusa di stupro perchè la vittima “era troppo mascolina e poco avvenente per essere oggetto di attrazione sessuale”. Una vergogna, purtroppo con tanti precedenti
Credevamo di aver toccato il fondo con la “tempesta emotiva”. Poi, però, è arrivata la vergognosa vicenda di Ancona, quell’incredibile assoluzione perché la vittima “era troppo mascolina e poco avvenente per essere oggetto di attrazione sessuale”, a dimostrarci che in questo paese in tema di femminicidi e violenze sulle donne non c’è davvero fine al peggio.
Siamo ben oltre ogni limite della decenza e dell’immaginazione, ci sono tre giudici che nelle motivazioni di una sentenza decidono di assolvere gli imputati (per altro giudicati colpevoli in primo grado e condannati rispettivamente a 5 e 3 anni di reclusione) non sulla base di indizi e prove che fanno supporre la loro innocenza ma, semplicemente, in base all’assunto che la vittima era brutta e, di conseguenza, non “sessualmente appetibile” per i due ragazzi che, quindi, non avrebbero avuto alcun motivo per violentarla.
Ci sarebbe molto da puntualizzare, ci sarebbero anche le perizie mediche effettuate quella disgraziata notte dalla ragazza e altri atti processuali da citare. Ma è a dir poco assurdo anche solamente dover disquisire e controbattere certe disgustose argomentazioni che sarebbero indegne persino di una discussione di infimo livello da bar. Invece stiamo parlando delle motivazioni di una sentenza emessa da un tribunale, per la precisione dalla Corte di Appello di Ancona.
Dobbiamo doverosamente premettere che non abbiamo letto direttamente quell’atto che vorremmo davvero che non fosse così come è stato presentato. Abbiamo letto diversi stralci della sentenza stessa pubblicati da diversi quotidiani. E se davvero (come appare pressochè certo) quegli stralci sono reali siamo di fronte ad una vergogna senza fine.
Secondo quanto riportato dai quotidiani, infatti, nella sentenza viene riportato che “la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Nina Vikingo” con allusione ad una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare”. I giudici della Corte di Appello, quindi, confermano, la ragazza non è per niente avvenente, figuriamoci se a qualcuno poteva venire in mente di violentarla!
Occorre sempre ricordarlo, siamo nell’aula di un tribunale, stiamo parlando di un atto pubblico, non di una discussione in una bettola di quart’ordine tra ubriachi. La conseguenza, logica e scontata per quei tre giudici che hanno firmato le motivazioni della sentenza, è che “in definitiva non è possibile escludere che sia stata proprio lei ad organizzare la nottata goliardica, trovando una scusa con la madre”.
Conseguenza logica, seguendo questo folle e perverso ragionamento, la ragazza è brutta e non suscita attrazione, sicuramente ha organizzato tutto per poter avere questa esperienza sessuale, costruendo poi la messinscena dello stupro per giustificarsi con la madre. Che squallore, che indecenza, a prescindere da ogni altra considerazione, a prescindere anche dall’eventuale colpevolezza o innocenza dei due imputati, come possono dei giudici mancare di rispetto e umiliare in questo modo una ragazza.
Se non ci sono prove a sufficienza (per i giudici in primo grado in realtà si ma capita non di rado che le sentenze vengano ribaltate in appello) o se addirittura ci sono prove che li scagionano è giusto non condannare i due imputati. Ma non può in alcun modo essere accettato che ciò avvenga sulla base di determinate considerazioni di carattere “estetico” che non solo non competono ai giudici (e più in generale a nessuno…) ma che costituiscono una immotivata umiliazione per chi ne è oggetto. Fortunatamente poi, quell’ignobile (per le motivazioni che l’hanno determinata) sentenza è stata annullata dalla Cassazione.
Ma la vergogna resta e non può rimanere impunita. E non servono provvedimenti disciplinari o cose simili, chi ha scritto e firmato simili vergognose motivazione assolutamente non può più svolgere il ruolo di giudice, ha ampiamente dimostrato di non essere in grado di farlo con la dovuta serietà e serenità. Non ci possono essere sconti in proposito, se si vuole provare a ridare un briciolo di credibilità alla giustizia italiana (almeno in questo campo).
Anche se, in realtà, il discorso dovrebbe essere più ampio e non si può certo limitarsi a questa ignobile sentenza. Perché se è vero che queste ultime “perle” giudiziarie (questa di Ancona ma anche quella della “tempesta emotiva”) non possono non provocare che rabbia e indignazione, è altrettanto innegabile che quelle sconcertanti sentenze non dovrebbe stupire più di tanto perché in realtà vanno nella stessa direzione di altre e non meno imbarazzanti pronunce che, in un modo o in un altro, tendono a giustificare atti che non dovrebbero in alcun modo essere giustificati, per i quali non potrebbero e non dovrebbero esistere un certo genere di attenuanti.
La casistica in proposito nel nostro paese è lunghissima e si perde nel tempo. Per restare ancora ad un passato non troppo lontano a fine anni ’90 fece molto scalpore l’assoluzione (dall’accusa di stupro) motivata dal giudice con il fatto che la vittima portasse i jeans ( e quindi secondo la tesi del giudice non potevano facilmente essere sfilati contro la volontà della vittima stessa).
All’epoca quella sentenza fece scandalo e provocò unanimi reazioni indignate che portarono in tanti ad illudersi che da quel momento mai più si sarebbe potuto assistere a simili sconcezze. Invece negli anni a venire la situazione per certi versi è addirittura peggiorata. Non più tardi di due anni fa, ad esempio, il giudice del Tribunale di Torino aveva assolto un uomo dall’accusa di violenza sessuale perché la sua vittima, secondo quanto ricostruito in tribunale, aveva ripetutamente implorato l’uomo e detto di no però non aveva urlato.
Qualche mese dopo sempre il tribunale di Torino, ma presieduto da un altro giudice, aveva assolto un uomo accusato di violenze e maltrattamenti nei confronti della ex con la motivazione che le aggressioni non erano state continue. In effetti la donna in 8 anni era finita in ospedale “appena” 9 volte, solamente poco più di una volta all’anno…
Lo scorso anno, invece, addirittura la Cassazione, riformando una sentenza del tribunale di Venezia su un caso di violenza sessuale, aveva stabilito che bisognava applicare all’uomo le attenuanti perché aveva commesso lo stupro stesso sotto l’effetto dell’alcol. E allora, a pensarci bene, se la responsabilità per la violenza sessuale può essere attenuata dal fatto di essere in stato di ubriachezza (che invece è considerata un’aggravante in altro genere di reati…), perché mai quella per un femminicidio non può essere ridotta dalla presunta “tempesta emotiva”?
C’è un filo logico evidente e per nulla sottile che lega quella ignobile sentenza della Cassazione con l’ultima, ancor più vergognosa, del tribunale di Bologna. Allo stesso la vergognosa vicenda di Ancona per certi versi ha tanti, troppi precedenti similari in tutte quelle circostanze in cui, a proposito di stupri e violenze, si è discusso del look, dell’abbigliamento o del modo di vivere della vittima. Come se vestire in un modo o in un altro o, peggio ancora, avere un determinato stile di vita piuttosto che un altro possa poi rappresentare un’attenuante o addirittura una sorta di provocazione in caso di violenza.
Certe umilianti e vergognose considerazioni sono difficili da accettare anche quando avvengono in ambienti di basso livello, in bettole di quart’ordine, nel corso di conversazioni tra ubriachi. Figuriamoci, quindi, se possono essere tollerate quando invece avvengono in un aula di tribunale o, peggio ancora, vengono riportare tra le motivazioni di una sentenza…