Morire per raccontare la verità: omaggio ad Anna Politkovskaja
La giornalista russa, divenuta famosa in Occidente per gli articoli che raccontavano gli orrori russi in Cecenia, fu uccisa il 7 ottobre di 10 anni fa mentre rientrava nella sua casa a Mosca. Pochi mesi prima aveva pubblicato un libro denuncia sulla Russia di Putin
“Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola ad essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare“. Era l’estate del 2006 quando, nel corso di un colloquio informale con alcuni giornalisti internazionali, Anna Politkovskaja pronunciava questa frase. Due mesi dopo, nel pomeriggio del 7 ottobre 2006, mentre rientrava a casa dopo aver fatto la spesa, venne uccisa con quattro colpi di pistola nell’ascensore del condominio dove abitava. Magari si tratta di una semplice fatalità ma il 7 ottobre coincide con il compleanno di Vladimir Putin, il leader russo che non ha mai nascosto tutta la sua “antipatia” nei confronti della giornalista e attivista per i diritti umani russa.
A 10 anni dal suo omicidio è doveroso, per chi ama questo mestiere e lo considera quasi una missione, un ricordo per una donna, per una giornalista che non è mai arretrata di fronte alle minacce e agli avvertimenti ricevuti, che non si è mai fatta da parte, pur sapendo perfettamente a cosa stava andando incontro. Ma questo breve omaggio alla giornalista russa è anche dedicato a tutti coloro che nel nostro paese negli ultimi anni sono stati travolti da un’insolita passione per il leader russo Putin. A loro vale la pena ricordare che Anna Politkovskaja è solo una dei 133 (dicasi centotrentatre) giornalisti russi uccisi nell’era Putin.
E se ovviamente non c’è nessuno che possa ragionevolmente imputare tutti quegli omicidi direttamente al primo ministro russo, quello che è certo è che tutti e 133 i giornalisti uccisi erano a lui invisi. E che la giustizia russa non ha mai mostrato particolare interesse a risolvere quei casi, soggetta come è la polizia ad un controllo politico rigido che nulla ha da invidiare a quello dell’era sovietica. In aggiunta a tutto ciò vanno ricordati i tanti giornalisti licenziati, sanzionati, incarcerati ed emarginati da un mercato editoriale che pian piano è finito quasi completamente in mano ad uomini e gruppi vicini al leader o, al massimo, abbastanza accorti da non disturbarlo mai.
Chissà se davvero vorrebbero essere governati da un simile leader tutti coloro che, nel nostro paese, urlano e strillano contro l’informazione asservita al potere nel nostro paese ma, poi, incensano e blandiscono il leader russo. E proprio in quella Russia in cui il mestiere di giornalista, almeno inteso in una determinata maniera, era impossibile da portare avanti, negli ultimi anni della sua esistenza viveva da reietta Anna Politkovskaja, ben consapevole della sua situazione.
“Sono una reietta – raccontava un anno prima della sua morte in una lunga intervista con un settimana francese – è questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me. Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto. È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci: erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999.“
Figlia di due diplomatici ucraini che lavoravano alle Nazioni Unite, Anna Mazepa (il suo cognome originario prima di sposare Alexanedr Politkovskji e cambiare cognome in Politkovskaja come avviene in Russia) era nata a New York ma era cresciuta a Mosca dove nel 1980 si era laureata in giornalismo. Aveva iniziato la sua attività in uno degli organi ufficiali della stampa sovietica, il quotidiano Izvestia ma presto passò alla stampa indipendente, prima alla Obshchaja Gazeta, poi alla Novaya Gazeta, un bisettimanale che sin dalla sua fondazione era stato molto critico con la Russia post sovietica, pubblicando inchieste su casi di corruzione che coinvolgevano esponenti di primo piano del governo. Proprio l’incontro con quel periodico permetterà alla Politkovskaja di interpretare la professione di giornalista come aveva sempre desiderato che fosse.
“I giornalisti – affermava – non sfidano l’ordine costituito. Descrivono soltanto ciò di cui sono testimoni. E’ il loro dovere, così come è dovere del medico curare l’ammalato e dovere dell’ufficiale difendere la patria. E’ molto semplice: la deontologia professionale ci vieta di abbellire la realtà”. Fedele a questo dovere, nei primi anni alla Novaya Gazeta portò avanti appassionate indagini su vari temi sociali, dalla situazione degli orfanotrofi statali alla condizione della popolazione anziana, fino ad occuparsi della situazione dei milioni di rifugiati all’interno della federazione.
Proprio l’interesse per i rifugiati la portò in Cecenia nel momento in cui scoppiava il secondo violento scontro armato che vide il pesante coinvolgimento dell’esercito russo. Nei suoi primi articoli dalla Cecenia risulta evidente che condivideva le ragioni della Russia, del suo intervento armato per combattere le forze islamiche indipendentiste della autoproclamata Repubblica di Ichkeria che aveva il controllo del paese. Pian piano, però, la sua posizione cambia, inizia a scrivere e a testimoniare i terribili abusi dei servizi segreti russi, il Servizio di Sicurezza Federale (FSB) che è il continuatore del KGB sovietivo, e dei servizi segreti militari (GRU) che, visto che il conflitto ceceno era gestito come un’operazione antiterrorismo, gestiva e controllava l’intervento.
“Niente potrà togliermi il senso di colpa che ho nei confronti di coloro che hanno sacrificato la vita per il mio lavoro, per la mia resistenza al tipo di giornalismo che si sta instaurando in Russia grazie alla guerra “alla Putin” – scriveva in uno dei suoi articoli – parlo di un giornalismo ideologico senza accesso all’informazione, senza incontri né conversazioni con le fonti, senza verifiche dei fatti. Come ad esempio quello dei miei colleghi, che seduti dietro tre barriere di filo spinato nelle basi militari russe, riferiscono a Mosca del “miglioramento quotidiano” dei villaggi ceceni. Quel tipo di lavoro, che io credevo morto insieme al comunismo, da noi è ormai considerato la norma, e inoltre è riconosciuto e lodato dalle autorità. Quanto all’altro tipo di giornalismo, quello che comporta uno sguardo diretto su ciò che succede, non solo viene perseguitato, ma si rischia addirittura la vita. Un salto indietro di dieci anni, dopo la caduta dell’Urss!“.
In quegli anni in Cecenia oltre a numerosi articoli, scrisse e testimoniò in due libri le tante uccisioni di civili innocenti e, al termine del conflitto, della corruzione dilagante e delle ripetute violazioni dei diritti umani del nuovo regimo di Kadyrov appoggiato da Mosca. E proprio per questa sua intensa attività nel 2001 per la prima volta subì abusi e minacce. Era l’inizio dell’anno quando venne arrestata dai militari russi e rinchiusa per diversi giorni in una buca, minacciata di stupro e poi spaventata con una finta esecuzione. Un episodio che la segna al punto che decide di lasciare la Russia per trasferirsi a Vienna. Ben presto, però, fa ritorno a Mosca e riprende a scrivere della situazione della Russia di Putin, del dramma ceceno.
Nonostante l’evidente avversione da parte del governo Putin e di tutto l’establishment, raggiunge una decisa notorietà nel paese (oltre che a livello internazionale). Tanto che nel 2002, in occasione dell’irruzione nel teatro Dubrovka di Mosca di terroristi ceceni e del successivo assedio, viene chiamata per cercare di fare da intermediaria tra i rapitori e le forze dell’ordine. La vicenda di chiuderà con l’irruzione delle forze speciali e 129 morti.
Due anni dopo il mondo viene sconvolto dalla drammatica storia di Beslan (Ossezia del Nord), dove una scuola con 1200 persone viene occupata da un gruppo di separatisti ceceni. Una vicenda che finisce con una strage, con oltre 300 morti (186 bambini) dopo il blitz delle forze speciali russe. La versione ufficiale russa sostiene che il blitz parte dopo che, all’interno della scuola , esplode un ordigno (anche se i testimoni che confermerebbero questa tesi forniscono versioni completamente discordanti). Ma il governo indipendentista ceceno guidato da Maskhadov (che aveva vinto le elezioni nel 1997 ma non venne riconosciuto da Putin) accusa il governo russo e i servizi segreti di aver preordinato la strage, citando numerosi testimoni che affermano che a scatenare l’attacco all’edificio è stata una cannonata russa e che, poi, c’erano elicotteri che sparavano dall’alto anche contro i bambini.
La Politkovskaja ovviamente si intessa della vicenda, inizia a scavare, approfondire, ascoltare testimoni e nelle sue dichiarazioni alla stampa internazionale si schiera apertamente dalla parte governo indipendentista ceceno. “Il governo russo non ha fatto nulla, al di là delle dichiarazioni di Putin, per avviare un negoziato con i guerriglieri che tenevano in ostaggio i bambini di Beslan”. Durissimi gli attacchi contro la politica di Putin negli articoli di quei giorni. “Vorrei sottolineare – scrive in un articolo – la politica repressiva di Putin. Per me non ci sono differenze tra bambini osseti, ceceni, russi o armeni. Ho scritto numerosi articoli sul massacro di intere famiglie cecene. Non capisco però perché l’Occidente si è commosso solo con la tragedia di Beslan, mentre tace sul massacro di molti altri bambini e su centinaia di migliaia di civili uccisi e torturati dalle forze armate russe”.
Proprio in quei giorni avviene un episodio che in molti interpretano come un preciso avvertimento. Mentre è su un aereo diretto al Caucaso, dopo aver bevuto un tè perde conoscenza. E’ avvelenamento, secondo le successive ricostruzioni da parte del FSB. Un’intimidazione davanti alla quale la giornalista russa non si ferma, anzi. Nel 2005 esce il suo libro “La Russia di Putin” sui problemi sociali ed economici della Russia e sulla gestione del dissenso da parte dei servizi segreti con l’appoggio del governo.
La Politkovskaja descrive l’esercito russo come un inferno dove i giovani soldati vengono sotto posti a vessazioni crudeli da parte dei loro superiori senza pietà. Parla delle falsificazioni effettuate dai vari funzionari dell’esercito: creazione di false prove e documenti, torture e processi farsa. Descrive alcuni personaggi “loschi” dell’esercito, il colonnello Budanov, che violenta e poi uccide una giovane cecena, e il mafioso Fedolev. Il libro si chiude con la vicenda del Teatro Dubrovka (che provocò la morte di 129 civili russi e 39 militari separatisti ceceni) e l’immediato incremento dell’odio e dell’eliminazione fisica nei confronti della popolazione cecena, nemica numero uno di Putin e della sua guerra contro il terrorismo.
Il libro ha vastissimo eco internazionale e, ovviamente, provoca polemiche in Russia e forte irritazione negli ambienti del governo e del primo ministro Putin che più volte si scaglia in maniera violenta contro la giornalista. Che, secondo quanto raccontano le persone che all’epoca le erano vicine, capisce che la sua vita a rischio ma, nonostante gli inviti di amici e colleghi, decide di non fuggire dalla Russia. La sua sorte è segnata e si compie il pomeriggio del 7 ottobre 2006. Quasi 10 anni dopo per la sua morte verrà condannato un giovane ceceno e, come complici, i suoi due fratelli.
Resta, però, il mistero sul mandante dell’omicidio, anche se negli anni sono state formulate diverse ipotesi. Oggi, 10 anni dopo, il suo volto dall’aria triste e decisa è diventato nel mondo del giornalismo un’icona della libertà di espressione