Secondo il rapporto Ocse i salari italiani in un anno sono scesi di oltre il 7%, il doppio rispetto agli altri paesi, partendo già da una base più bassa rispetto al resto dell’Europa. Ritardi e limiti della contrattazione collettiva e assenza di un salario minimo le principali cause
L’Italia è il paese che ha registrato il calo dei salari reali più netto tra gli stati che fanno parte dell’Ocse ed ha fatto registrare un calo doppio rispetto alla media dei paesi dell’Ocse stessa tra il primo trimestre del 2022 e il primo trimestre del 2023. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto Ocse con le prospettive sull’occupazione per il 2023 che contiene le stime e i dati più aggiornati sul mercato del lavoro che fanno parte dell’Organizzazione, con approfondimenti specifici sugli Stati più grandi come Stati Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Giappone e, appunto, Italia. Un quadro sconfortante per il nostro paese che, però, non stupisce e può essere considerato sorprendente solo per chi crede alle favolette che raccontano la presidente del Consiglio Meloni e la sua sgangherata corte.
Per altro, a rendere più fosco il quadro, il rapporto Ocse ricorda come il livello dei salari italiani era già tra i peggiori, prima della pandemia nel 2018 in Italia la retribuzione mediana oraria era pari a 12,61 euro, un dato più basso della media dei 27 paesi membri dell’Ue (13,18 euro) e, ancora di più, della media dei paesi che hanno l’euro (14,51 euro). “In media – si legge nel rapporto Ocse – nel primo trimestre 2023 i salari sono diminuiti del 3,8% rispetto all’anno precedente nei 34 paesi dell’Ocse i cui dati sono disponibili”.
In Italia, invece, il calo, rispetto al primo trimestre 2022, è praticamente doppio, intorno al 7%. E se è vero che tutti i principali paesi Ocse hanno fatto registrare un calo dei salari, ci sono paesi come Francia, Spagna e Stati Uniti dove la diminuzione è risultata inferiore al 2%. “L’Italia – si legge ancora nel rapporto Ocse – è il paese che ha fatto registrare il calo dei salari reali più forte tra le principali economie Ocse. Alla fine del 2022 i salari reali erano calati del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia”.
Per capire meglio di cosa si sta parlando occorre specificare che il “salario reale” è uguale al rapporto tra il salario monetario ed il livello dei prezzi. In altre parole si fa riferimento alla retribuzione media oraria tenendo conto del peso dell’inflazione, ossia dell’aumento dei prezzi di beni e servizi. Quindi il rapporto Ocse certifica quanto già noto, cioè che in tutti i paesi Ocse le retribuzioni crescono in misura minore rispetto ai prezzi di beni e servizi e che in Italia questa differenza è ancora più marcata. Naturalmente ad essere maggiormente colpite sono le fasce più deboli.
“La perdita di potere di acquisto ha un impatto più forte sulle famiglie a basso reddito, che hanno una minore capacità di far fronte all’aumento dei prezzi attraverso il risparmio o l’indebitamento” scrive ancora nel suo rapporto l’Ocse che indica anche alcune delle cause che rendono la situazione italiana più grave e preoccupante: i limiti e i ritardi della contrattazione collettiva e l’assenza di un salario minimo stabilito per legge. In particolare l’Ocse evidenzia come la contrattazione collettiva non riesca più, almeno in maniera sufficiente, a tutelare i lavoratori e le fasce più debole, sottolineando come nel 2022 in Italia i salari fissati da contratti collettivi sono diminuiti in termini reali di oltre il 6%. Che, in pratica, significa che i contratti collettivi non sono al passo dell’inflazione.
Come se non bastasse l’Ocse ricorda anche il peso e le conseguenze nei ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi, con oltre il 50% dei lavoratori italiani che è coperto da un contratto collettivo scaduto da almeno 2 anni, che rischiano di prolungare nel tempo la perdita di potere d’acquisto di troppi lavoratori. Ad aggravare la situazione c’è poi il fatto che, a differenza di gran parte dei paesi Ocse (e di tutti quelli più importanti) l’Italia non prevede un limite minimo di retribuzione. Per quanto riguarda i paesi Ue in 21 su 27 è presente una legge sul salario minimo , oltre all’Italia non ce l’hanno Danimarca, Austria, Finlandia e Svezia (che per cultura e tradizione non ne hanno particolare bisogno), oltre a Cipro.
Nelle settimane scorse l’opposizione unita (ad eccezione di Italia viva, sempre ammesso che il partito di Renzi possa essere considerato opposizione…) ha presentato una proposta di legge che prevede una soglia minima di 9 euro lordi all’ora, al di sotto di quanto previsto in Germania (è stato alzato a 12 euro all’ora), in Francia, Belgio, Olanda e Irlanda (oltre 11 euro all’ora), mentre la Spagna, dove era già previsto un salario minimo mensile di 1000 euro, nei mesi scorsi è stato aumentato dell’8% dal governo Sanchez, quindi con un aumento di 80 euro (su 14 mensilità), pari a 7,80 euro all’ora.
Però il governo ha già ampiamente fatto capire che non ci sono possibilità che la proposta dell’opposizione possa passare, che farà muro, con la Meloni che non ha neppure spiegato nel dettaglio perché è contraria all’introduzione del salario minimo garantito, mentre la ministra del lavoro Calderone giustifica l’avversione del governo con la risibile motivazione secondo cui “bisogna investire sulla contrattazione collettiva di qualità”, trovando sponda nel segretario della Cisl secondo cui con l’approvazione del salario minimo “rischiamo di creare alibi e pretesti alle imprese che a quel punto possono decidere di uscire dall’applicazione dei contratti”.
Peccato, però, che la proposta presentata dalle opposizioni (sostenuta dagli altri sindacati) prevede che sia riconosciuto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi, con il salario minimo che diventa un’ulteriore garanzia.
“A sentire Meloni il nostro è il Paese delle meraviglie, dove tutto va a gonfie vele – accusa la vicepresidente del Pd Chiara Gribaudo – la realtà, come sanno milioni di italiani in difficoltà, è ben diversa. L’Ocse ha certificato che, in un anno, i nostri salari sono scesi del 7%, più che in ogni altro paese, partendo già da una media più bassa rispetto alla media europea. Dovrebbe essere la prima emergenza su cui intervenire, invece il governo ha scelto la via della precarietà e dello smantellamento dei diritti. C’è di più, in audizione alla Camera l’Istat conferma come il salario minimo porterebbe benefici a 3,6 milioni di lavoratori e lavoratrici, con oltre 800 euro in più in busta paga ogni anno. La destra ha dichiarato guerra ai poveri e reintrodotto forme di contratti precari come i voucher. Noi riteniamo che il lavoro debba essere giustamente retribuito, dignitoso, di qualità e sicuro”.