L’incredibile storia dell’imprenditore calabrese Gaetano Saffioti, dal 2002 sotto scorta per essersi ribellato alla ‘ndrangheta, che da mesi ha messo a disposizione i suoi 120 mezzi per portare via gratuitamente le macerie, senza ottenere alcuna risposta
Uno dei dubbi ricorrenti in queste ultime settimane, di fronte ai tanti episodi sconcertanti legati al post terremoto, è in che misura queste vicende stiano irrimediabilmente minando la già bassa credibilità delle nostre istituzioni (sia quelle nazionali che locali).
In quest’ottica con l’incredibile storia dell’imprenditore calabrese Gaetano Saffioti, che da mesi ha messo a disposizione dei terremotati del centro Italia i suoi 120 mezzi per portare via le macerie senza ottenere alcuna risposta, probabilmente si è toccato il punto più basso mai ricordato. Lo ammettiamo, quando nelle ore scorse è iniziata a circolare questa voce abbiamo creduto che si trattasse di una delle tante “bufale”, delle innumerevoli “fake news” che infestano i social. Troppo incredibile, troppo paradossale anche per un paese come l’Italia dove l’impossibile (da questo punto di vista) sempre più spesso diventa realtà.
Come si può pensare che, con la sconfortante situazione che ancora c’è per quanto riguarda le macerie, sia rimasto inascoltato l’appello di chi, avendo mezzi a volontà, si offriva di occuparsi della loro rimozione addirittura gratuitamente? Invece, ancora una volta, la realtà supera di gran lunga ogni fantasia e questa storia, approfondendo un po’, assume contorni surreali. Per capire meglio di cosa stiamo parlando bisogna, innanzitutto, comprendere chi è il protagonista di questa incredibile storia, colui che ai era offerto (e si offre tuttora) di fornire questo grande servizio gratuitamente.
Gaetano Saffioti è un imprenditore calabrese (di Palmi) 55enne che, come la maggior parte degli imprenditori di quella zona, sin dall’inizio ha dovuto scontrarsi con la ‘ndrangheta. Dopo aver rivelato l’azienda di produzione di olio d’oliva del padre, a metà degli anni ’80 decide di seguire la sua passione, il movimento terra, e dà vita ad un’impresa specifica a cui, nel 1992, aggiunge l’impianto di calcestruzzo. La sua azienda vola e ottiene diversi appalti pubblici ma, proprio per il successo, inizia a far gola alla ‘ndrangheta. Che pretende la sua parte di potere e ricchezza e, per questo, inizia a sottoporlo a richieste sempre più dure e pressanti, tra minacce, intimidazioni, danneggiamenti.
Addirittura per alcuni lavori gli impongono, sempre sotto ricatto, di non utilizzare la sabbia della sua cava ma di comprarla presso alcune imprese di proprietà di esponenti mafiosi. Per un po’ la paura prevale e Saffioti cede ai ricatti, poi stanco e soffocato dalle minacce, decide di ribellarsi. E’ il 2002 quando si rivolge alla magistratura e vuota il sacco, raccontando tutte le pressioni, le minacce, i ricatti che è costretto a subire.
”Mi colpì l’affermazione del magistrato Pennisi che in tv denunciava la codardia degli imprenditori calabresi – raccontava qualche tempo fa, nel corso dell’XI incontro seminariale di Mafie e Antimafia, spiegando come si era convinto a fare questo difficile passo – allora mi recai nel suo ufficio e mi presentai dicendo: sono Gaetano Saffioti e non sono un codardo. Ciò che frena le denunce non è la paura delle estorsioni, ma la certezza di essere esclusi dagli appalti. Ma è sempre questione di scelta: scegliamo di essere locomotiva e non vagone. Scegliamo di essere liberi“.
La sua testimonianza è per gli inquirenti fondamentale tanto che consentirà loro di avviare alcune importanti inchieste (operazione Arca, operazione Cosa Mia, operazione Scacco Matto) che porteranno all’arresto prima e alla condanna poi, per associazione di tipo mafioso e estorsione, di 48 esponenti di alcune delle più note famiglie mafiose calabresi. Quel gesto di coraggio, però, ovviamente stravolge la sua vita. Viene subito messo sotto scorta insieme a tutta la sua famiglia, perde molti lavori oltre a tanti amici e dipendenti.
Nonostante tutto decide di rimanere in Calabria e di rifiutare anche gli aiuti economici che lo Stato solitamente eroga ai testimoni di giustizia. Tra mille difficoltà va avanti con la sua ditta, ottenendo anche importanti lavori in Europa e nel mondo, diventando uno dei simboli della Calabria che non cede, che non si piega alle minacce e ai ricatti mafiosi. La sua storia diventa un simbolo di tutti quei territori, oppressi dalle mafie, che si ribellano. Partecipa ad incontri, convegni, dibattiti, diventa uno dei simboli del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale “Contro le Mafie”).
Nel maggio 2012 viene invitato, insieme ad un altro imprenditore (Vincenzo Conticello) e a due giornalisti (Rosaria Capacchione e Giovanni Tizian) al programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano (su La7) “Quello che (non) ho” per raccontare con un testo alcune delle cose che mancano a chi, come loro, è costretto a vivere una vita sotto scorta.
Ed il suo testo, “Questo che non ho è l’aria”, commuove ed emoziona tutti (“Libertà, autonomia, indipendenza, scelta, limitazione, privacy, vita, normalità. Quanti significati sono compresi in questa parola. L’aria come necessità di respiro, che avvolge la normalità dell’unica vita che abbiamo, alla quale non si chiede niente di eccezionale ma di poterla vivere e respirarla. L’aria allo stadio, al cinema, al mare, con gli amici, al bar, in moto, ad un concerto. Ma a te sono preclusi, e ti manca l’aria, quell’aria seppur polverosa dei cantieri in cui lavoravi.
Sei un testimone di giustizia sotto scorta: vita blindata, devi chiedere per qualsiasi cosa. Ti senti mancare l’aria. Sei in casa e vorresti aprire le finestre, ma c’è il vetro blindato e l’aria non passa. Allora esci in cortile, ma c’è il muro di quattro metri di recinzione. Vuoi uscire per superare quel muro, ma solo in macchina si può. Pregusti il vento che ti accarezza il viso, ma i vetri dell’auto blindata non si possono abbassare. Ti manca l’aria perché hai scelto di essere una persona perbene e hai fatto il tuo dovere verso la tua Terra, che ami e non hai abbandonato, e lasciare in eredità un mondo migliore affinché quell’aria che ti manca possa averla chi verrà dopo di te. Caro Borsellino, quante rinunce e sacrifici per respirare il fresco profumo di libertà di cui parlavi. Ma la libertà non ha prezzo e qualsiasi prezzo va bene alla libertà. Non ho risentimenti né recriminazioni: oggi, comunque, mi sento un uomo libero”).
Nel marzo scorso ha ricevuto, insieme all’attore Toni Servillo e all’inventore dello Slow Food, Carlo Petrini, il premio nazionale don Diana (il prete di Casal dei Principi ucciso dalla camorra nella sua chiesa poco prima di dire messa nel 1994) con la seguente motivazione “Per aver deciso di restare in Calabria e continuare l’attività aperta nel 1981. La sua battaglia di resistenza ha radici profonde, ispirato dal desiderio di libertà e di non abbandonare la sua gente così come non si abbandona un amico in difficoltà. Crede nel valore della parola e dell’esempio che vive con esemplare testimonianza”.
Nelle settimane scorse è uscito un libro dedicato alla sua vicenda, “Questione di rispetto – L’impresa di Gaetano Saffioti contro la ‘ndrangheta”, scritto da Giuseppe Baldessarro. Magari staremo esagerando, ma uno Stato civile, delle istituzioni credibili e autorevoli probabilmente non avrebbero dovuto neppure attendere che l’imprenditore calabrese si proponesse. D’accordo, pretendere così tanto dalle nostre istituzioni, dai nostri amministratori è un’utopia.
Però come è mai potuto accadere che la sua straordinaria offerta venisse completamente ignorata? Che Saffioti sia non solo un imprenditore, ma anche e soprattutto un uomo credibile, è del tutto evidente, così come è chiaro che la sua azienda ha ampiamente i mezzi per svolgere in maniera accurata e rapida l’opera di rimozione delle macerie.
Da quanto emerge, nel post terremoto l’imprenditore calabrese ha provato a contattare tutti, ha scritto e inviato mail alle protezioni civili di Marche, Umbria e Lazio, ha lanciato appelli su tutti i social e sui giornali ma il massimo che ha ottenuto è un “grazie” da parte della Protezione civile di Rieti che, ovviamente, poi si è ben guardata dal contattarlo. Ha contattato anche il sindaco di Amatrice Sergio Pirozzi che non si è neppure degnato di rispondere e che ora si giustifica sostenendo che ha pensato che non fosse una cosa credibile.
Certo, in un paese sempre più degradato (sotto ogni punto di vista) come il nostro non è facile pensare che ci possano essere persone del genere. Ma quanta superficialità, quanta approssimazione da parte di tutti, anche da parte di chi doveva conoscere la storia di Gaetano Saffioti, doveva sapere quanto credibile e concreta fosse la sua proposta. Sarebbe stata una storia straordinaria, l’imprenditore coraggioso perseguitato dalla ‘ndrangheta che dimostra cosa significa appartenere ad una comunità, cosa sia il senso civico, che va in soccorso delle popolazioni terremotate in difficoltà.
Sarebbe e potrebbe essere ancora ora una storia da raccontare ai posteri, visto che 11 mesi la situazione è praticamente la stessa, appena il 10% delle macerie è stato rimosso ed il rischio che si vada ancora avanti per molto è molto più che concreto. Basterebbe un po’ di buon senso e un pizzico di coraggio per accogliere, sia pure con colpevole ritardo, l’appello di Saffioti. Già, coraggio e, soprattutto, buon senso sono virtù sempre più rare tra le nostre istituzioni, tra i nostri amministratori…