Vergogna italiana in Albania: centri per migranti simili a lager


Al di là dei dubbi e delle perplessità che sta sollevando, tra costi eccessivi, scarsa trasparenza e ora la sentenza della Corte di giustizia europea che mette il governo spalle al muro, c’è la vergogna per centri che assomigliano sinistramente a lager (o campi di concentramento)…

L’annuncio ufficiale (l’ennesimo di un esponente del governo sul tema, per la verità) del ministro Piantedosi ha spazzato via i dubbi e cancellato la speranza che in extremis il governo si ravvedesse, evitando al nostro paese questa vergognosa onta. I centri per migranti in Albania, quelli che il governo aveva assicurato di aprire a maggio, poi a luglio, poi (dopo la visita della presidente del Consiglio Meloni a Gjader e Shengjin a fine giugno) sicuramente il 1 agosto, sono pronti e dai prossimi giorni inizieranno a funzionare. In realtà in questo caso il mancato rispetto delle scadenze non era certo una cosa così negativa, anzi, si sperava davvero e sarebbe stato quanto mai auspicabile che di rinvio in rinvio, di ritardo in ritardo il progetto alla fine naufragasse definitivamente e fosse accantonato.

Perché, senza girarci troppo intorno, quei centri in Albania sono qualcosa di cui il nostro paese deve vergognarsi profondamente, è un’onta che rischia di rimanere indelebile e screditare ulteriormente l’Italia nel panorama internazionale. E non tanto o non solo per come è stata gestita malissimo tutta l’operazione, per i costi incredibilmente elevati che dovremo sostenere per qualcosa di assolutamente inutile che non aiuterà neppure un minimo a risolvere il problema, per la sconfortante confusione, sia da un punto di vista logistico che da un punto di vista del rispetto delle norme internazionali, per le sconcertanti superficialità e trascuratezza evidenziate nell’occasione dal nostro governo ed emerse con ancora maggiore chiarezza proprio in queste ore che quei centri si apprestano a diventare operativi. E’ un’autentica vergogna perché non è accettabile che un paese come il nostro, con la nostra cultura, le nostre tradizioni possa anche solo pensare di rinchiudere degli essere umani, che peraltro hanno la sola colpa di essere fuggiti da paesi invivibili, in quelli che sono qualcosa di sinistramente simile a campi di concentramento.

Chi ha partecipato all’incontro che si è tenuto lo scorso 8 ottobre presso la Sala Morgante di Casa Regina Apostolorum nel capoluogo piceno, dal titolo “Saper comunicare la cooperazione internazionale”, non può non aver provato un profondo senso di orrore, misto a vergogna, nel vedere le immagini di quei centri e nell’ascoltare il racconto del giornalista Pierfrancesco Curzi che da sempre segue la vicenda di quei centri in Albania da vicino. “Ma non ritiene che quelle strutture siano praticamente dei campi di concentramento?” gli abbiamo chiesto al termine del suo intervento, con la risposta che non lascia spazio a dubbi ed interpretazioni: “è esattamente così”. D’altra parte qualcosa di simile, usando però il termine “lager”, Curzi lo aveva scritto in un lungo e appassionato articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano”.

Il centro per i rimpatri di Gjader nel nord dell’Albania – scriveva – sta assumendo la sua forma definitiva, simile a un lager: i migranti salvati nel Mediterraneo dovranno passare almeno un mese dentro inospitali alveari impilati uno sull’altro e appoggiati sulla terra di un ex base militare dei tempi di Enver Hoxha”. “Non c’è filo spinato, sono di contenimento leggero” ha ribattuto il ministro Piantedosi con quella che, a ragione, il parlamentare Riccardo Magi ha definito “macabra ironia”. Perché manca davvero solamente il filo spinato, con quella recinzione alta 5 metri che chiude la struttura e quelle sbarre alle finestre che contribuiscono a renderla davvero simile ad un lager. Non a caso molti di quelli che hanno visitato quei centri li hanno immediatamente definiti la “Guantanamo italiana”, il campo di prigionia dove gli Stati Uniti rinchiudeva i sospetti di attività terroristiche che sconvolse il mondo civile per la sua disumanità.

Con la differenza, non di poco conto, che quelli che verranno portati nei centri di rimpatrio non saranno criminali… “Sono trattamenti disumani spostati all’estero perché il governo non vuole testimoni” accusa la portavoce italiana dell’ong Sea Watch. Ricordando che, secondo quanto prevede il piano, in quei simil lager andrebbero trasferiti i migranti intercettati in mare da navi italiane ma solo provenienti da paesi considerati “sicuri” (e, come vedremo, questo complica notevolmente le cose…) e che l’accordo non si applica alle cosiddette categorie vulnerabili (donne e bambini), da più parti si fa notare come il comandante della nave che di fatto effettuerà il trasporto potrebbe addirittura essere considerato responsabile di violazione dei diritti umani.

Al di là di ogni altra considerazione, però, c’è la vergogna di un paese come l’Italia che, di fatto, ha realizzato qualcosa di sinistramente simile a dei lager (o campi di concentramento che dir si voglia) in cui intende richiudere dei poveri disperati che non hanno commesso alcun crimine e che non sono in alcun modo pericolosi. Ed è giusto anche sottolineare che tutto ciò non c’entra nulla con eventuali politiche più rigide sull’accoglienza, con il tentativo di frenare i flussi migratori. Siamo di fronte ad uno dei più sconvolgenti esempi, almeno dalle nostri parti, di disumanità di Stato, di uno Stato che mostra la sua faccia peggiore. E questo aspetto da solo è sufficiente a bollare come vergognosa e umiliante per il nostro paese un’iniziativa che, per altro, fa acqua da tutte le parti e solleva dubbi e perplessità sono diversi punti di vista.

Da un punto di vista dei costi, poco meno di un miliardo di euro, della trasparenza (nella gestione degli appalti), soprattutto da un punto di vista della reale e concreta efficacia (al di là della disumanità del trattamento imposto), considerando che poi tutti i migranti che non avranno diritto a trattamento di protezione o asilo politico dovrebbero essere rimpatriati, ma senza accordi con le nazioni di origine praticamente è un’utopia. E considerando che il premier dell’Albania Edi Rama ha più volte chiarito che nessun migrante potrà mai rimanere in Albania (aggiungendo anche con cinismo che “nessun migrante può uscire dalle strutture, ciò che accade dentro non ci riguarda”), non bisogna essere dei geni per capire che poi quei migranti dovrebbero essere rispediti in Italia, destinati ad ingrossare il numero dei clandestini.

Una vera “genialata” che, però, rischia ora di trasformarsi in un clamoroso boomerang per il governo italiano dopo la recente sentenza della Corte di giustizia europea che impone a tutti i paesi Ue di rivedere le proprie liste di paesi sicuri e di conformarsi ai criteri più rigidi che ha indicato la Corte stessa. Cosa che di fatto renderebbe quasi inapplicabile il protocollo albanese. Infatti, in base alla legge con cui il Parlamento ha ratificato il protocollo con Tirana, nei centri di rimpatrio albanesi che sono sotto la giurisdizione italiana possono essere condotti solo migranti provenienti da paesi che l’Italia ha definito “sicuri”. Fino allo scorso anno in quella lista l’Italia aveva inserito 16 paesi (Albania, Algeria, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia, e Tunisia), a cui poi il governo Meloni ha inserito anche Colombia e Perù e, soprattutto, paesi come Camerun, Sri Lanka, Bangladesh e Egitto da cui provengono molti dei migranti (in particolare gli ultimi due, oltre la Tunisia.

Ma la direttiva europea 23/2023 (che riprende direttive precedenti analoghi) ha ribadito che per essere designati come tali i paesi devono essere concretamente sicuri per tutte le categorie di persone. Ed ora la sentenza della Corte di giustizia europea ha, una volta per tutte, certificato che, in caso contrario, nessun paese può essere definito sicuro e, quindi, inserito nella lista. Cosa che di fatto dovrebbe determinare l’esclusione dalla lista italiana proprio di quei paesi (come appunto Tunisia, Bangladesh e Egitto) dai quali proviene la maggioranza dei migranti. Con, in caso contrario, il rischio molto più che concreto che l’Italia subisca gravi conseguenze penali. In realtà gli effetti, devastanti per tutto il progetto, della sentenza della Corte si sono subito visti.

E’, infatti, partita la prima nave italiana, la Libra, che doveva trasportare circa 300 migranti soccorsi in mare nei centri in Albania. Ma, dopo aver effettuato uno screening in mare, ci si è resi conto che la maggior parte di quei 300 migranti provenivano proprio da quei paese. Così alla fine la Libra che si sta dirigendo in Albania trasporta solamente 16 migranti. Alla modica cifra di circa 250 mila euro. Davvero non ci sono parole…

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