Record negativo di votanti in Lombardia, con affluenza che si ferma al 41,7%, e in Lazio dove ha votato poco più di un terzo degli elettori. Meloni e FdI senza avversari anche nel proprio schieramento, ennesimo suicidio delle opposizioni ostaggio di leader inadeguati
Non sorprende più di tanto che nel nostro paese di questi tempi ci sia molta più attenzione per Sanremo che per le elezioni. E che, di conseguenza, gli italiani siano decisamente più interessati al voto per decidere chi vince il festival piuttosto che a quello per scegliere chi deve governare il paese o amministrare una Regione o un Comune. Certo, però, il dato sull’astensionismo è davvero impressionante e sconfortante ed indiscutibilmente l’aspetto maggiormente rilevante e più significativo di questa tornata elettorale regionale. Infatti ha votato il 41,7% degli aventi diritto, un vero e proprio record negativo per la regione più popolosa del paese nella quale 5 anni fa (regionali del 2018) si erano recati al voto il 73,1 degli elettori, oltre il 30% in più.
Crollo di affluenza praticamente simile anche nel Lazio dove addirittura la percentuale dei votanti non ha neppure avvicinato il 40%, fermandosi al 37,2% rispetto al 66,5% delle regionali del 2018. Per evitare possibili strumentalizzazioni, è opportuno precisare che in democrazia chi vince le elezioni è pienamente legittimato a governare, a prescindere dalla percentuale dei votanti. Quindi, per essere ancora più chiari, Fontana in Lombardia e Rocca nel Lazio hanno tutto il diritto-dovere di guidare le rispettive regioni, pur rappresentando meno del 20% degli elettori lombardi e laziali.
Però è indiscutibile che un astensionismo così alto, per giunta in continua crescita di elezione in elezione, è il segnale inequivocabile della distanza abissale che separa i cittadini dalla politica e dai partiti. Che, ovviamente in maniera differente, nel complesso non godono più di alcuna credibilità. Dovrebbe essere preoccupazione di tutte le forze politiche, per certi versi ancor più di chi vince e governa, questa progressiva e pesantissima disaffezione verso la politica. Per altro il dato delle ultime elezioni regionali si spera che sia il punto di arrivo (ma non ne siamo affatto certi) di una tendenza che si manifesta da anni. Già a settembre, infatti, era stato stabilito il record negativo di affluenza per un’elezione politica, da quando l’Italia è diventata una repubblica, con appena il 63,8% di votanti.
Negli anni ‘70 e ’80 alle elezioni politiche non si scendeva sotto il 90%, poi negli anni ’90 si viaggiava comunque intorno al 85% e ancora alle elezioni politiche del 2006 l’affluenza era solo di poco sotto (84,2%). Ora davvero si è toccato il punto più basso. Ed è chiaro, almeno dovrebbe esserlo per tutti, che un sistema democratico nel quale i rappresentati istituzionali (in questo caso regionali) vengono scelti da meno della metà degli elettori (nel caso del Lazio poco più di un terzo) è un sistema malato, anzi moribondo. Al punto che per una volta ci tocca dare ragione ad Alessandro Di Battista (d’altra parte anche un orologio rotto segna l’ora esatta due volte al giorno…) quando afferma che, se il 60% o più di cittadini non va a votare, più che di democrazia, si deve parlare di oligarchia.
Per altro se è logico ed è facile immaginare che l’astensionismo colpisca soprattutto il cosiddetto campo progressista (dal Pd al Movimento 5 Stelle fino alla sinistra più radicale), è comunque avventato pensare che sia realmente così. O meglio, sarebbe più corretto credere che l’astensionismo sostanzialmente non risparmi nessuna parte politica, anche se in misura differente. D’altra parte a confermarlo ci sono i dati, proprio quelli delle regionali di domenica scorsa. Che evidenziano come i tre partiti della destra tra Lazio e Lombardia, rispetto alle politiche di settembre, complessivamente hanno perso poco più di 1,5 milioni di voti.
Addirittura Fratelli d’Italia, che pure è indiscutibilmente il partito che ha stravinto questa tornata elettorale, ha comunque perso poco più di un milione di voti (in Lombardia passa da 1.369.089 a 725.402 voti, mentre nel Lazio da 851.348 a 519.633 voti), con Lega e Forza Italia che perdono circa 250 mila voti a testa. Al di là dell’aspetto più politica e del “giochetto” per provare a capire la tendenza politica di chi si astiene, un aspetto su cui bisogna ancor più riflettere è che l’astensionismo è molto più accentuato in determinate classi sociali, in particolari i più giovani e i più deboli e più poveri. Accomunati dalla diffusa convinzione (avallata anche dai fatti) di non sentirsi comunque rappresentanti in concreto da nessuna parte politica, da nessun partito, se non addirittura completamente ignorati ed esclusi. Di conseguenza certi che per loro che vinca una parte o l’altra cambi molto poco. Un esempio su tutti.
Per quanto riguarda i giovani nessuna forza politica si è concretamente impegnata o almeno preoccupata di garantire il diritto al voto a tutti quei giovani che, per il fatto che si trovano all’Università fuori sede o che lavorano lontano da casa, hanno difficoltà a tornare nel proprio comune di origine per votare. Secondo un calcolo approssimativo (effettuato nel corso di un approfondimento promosso dalla Presidenza del Consiglio nell’aprile 2022) si calcola che siano poco meno di 1,5 milioni, di cui poco più di 600 mila universitari.
Astensionismo a parte, il voto nelle 2 regioni ha confermato il quadro politico uscito dalle elezioni del settembre scorso. La destra unita, pur con tutte le sue divergenze al suo interno, vince trascinata da Fratelli d’Italia, che pian piano sta fagocitando gli elettori degli altri partiti della sua coalizione, anche perché praticamente è senza avversari. Con i partiti della cosiddetta area progressista che non hanno ancora compreso la lezione di settembre, ostaggi di leader politicamente palesemente incapaci, confusi e incoerenti, che in questi mesi si sono quasi esclusivamente preoccupati di farsi la guerra tra loro piuttosto che fare un’opposizione seria, cercando di incalzare un governo che, pure, di opportunità per essere messo in difficoltà ne ha fornite non poche. Non siamo certo dei maghi, ma l’inevitabile risultato delle elezioni regionali di febbraio lo avevamo anticipato già 2 mesi fa (vedi articolo “La sindrome di Tafazzi colpisce ancora, la destra ringrazia e passa all’incasso in Lazio e Lombardia”).
A peggiorare la situazione sono arrivate scelte cervellotiche e incomprensibili, tra candidati e strategie degne del miglior Tafazzi. Il “capolavoro” l’hanno compiuto Renzi e Calenda con la scelta di Letizia Moratti in Lombardia, un autentico suicidio politico che spazza via definitivamente la barzelletta che vorrebbe che Renzi non sbaglia mai una mossa. Ma anche il Movimento 5 Stelle non scherza, con la decisione di andare con il Pd in Lombardia ma non nel Lazio, dove ha presentato la sconosciuta Bianchi. Quanto al Partito democratico bisogna riconoscergli la straordinaria capacità di scegliere sempre (tranne qualche rarissima eccezione) il candidato sbagliato.
Inevitabile e non sorprendente la debacle, con il Pd che, magrissima consolazione, ha tenuto meglio (20,2% in Lazio, 21,8% in Lombardia) rispetto al vero proprio tracollo del M5S (da 17,4% a 3,9% in Lombardia, da 22% a 8,5% in Lazio) e di Renzi-Calenda, sotto al 5% in entrambe le regioni. Il Pd, con un percorso lungo e interminabile, sta scegliendo il nuovo segretario, con Letta che dopo la “batosta” di settembre ha annunciato le dimissioni. In un paese dove la politica è una cosa seria (quindi non in Italia…) anche gli altri partiti avrebbero da tempo fatto la stessa cosa, con Calenda, Conte e Renzi che si sarebbero fatti da parte (o sarebbero stati gentilmente messi da parte).
Il primo inevitabile passo per provare a costruire un’alternativa seria a questa destra, che in caso contrario rischia di governare a lungo per mancanza di avversari, provando a cercare i punti che posso unire, piuttosto che cercare e rinfacciarsi quelli che possono dividere, magari partendo proprio da giovani e classi più deboli che non hanno alcuna rappresentanza. Le elezioni regionali, infine, hanno confermato che la sinistra più radicale almeno nelle urne è in via di estinzione, vittima delle proprie ambiguità e di leader (o presunti tali) che hanno calpestato tutti quelli che erano i valori e i punti di riferimento della sinistra stessa, ora sempre più simile alla destra più estrema e populista.