Fake news e libertà di stampa, due universi paralleli
In Senato arriva la prima proposta di legge per combattere le fake news e subito scoppiano le polemiche, con chi sbandiera lo spettro della censura e invoca il rispetto della libertà di espressione, della libertà di stampa. Che, però, sono cosa completamente differente dalla libertà di inventare proditoriamente notizie false
Non è semplice in queste giorni parlare di libertà di espressione e di stampa, ma anche dei suoi limiti e della correttezza dell’informazione, di fronte alla confusione generata da chi, molto per ignoranza ma spesso anche per convenzione, cerca di mettere sullo stesso piano e nello stesso calderone gli eventi che si susseguono. Proviamo a farlo partendo da alcune doverose e fondamentali premessi. La prima, ad uso di tutti coloro che parlano del 77° posto dell’Italia nella classifica sulla libertà di stampa, per ribadire una volta per tutte che quella poco onorevole posizione non è certo determinata dall’eventuale scarsa qualità o dalla scarsa obiettività dei giornalisti italiani bensì dal clima di continue minacce in cui sono spesso costretti ad operare.
La seconda, non meno importante, è che libertà di espressione non può certo significare libertà di offesa, di insulto, così come non possono essere tollerati, in nome di una libertà di stampa che in questi casi poco o nulla c’entra, certi titoli e certi articoli chiaramente offensivi e sessisti. Con una doverosa chiosa, però. Insulti gratuiti e contenuti sessisti (che nulla hanno a che vedere con le legittime critiche, anche quando espresse con durezza e con crudezza) non sono mai tollerabili, sia quando colpiscono qualcuno che fa parte della nostra “fazione” sia quando colpiscono qualcuno della “fazione” avversa. Dovrebbero cercare di metterselo bene in mente i troppi “moralisti a targhe alterne” del nostro paese, quelli che, urlano e strepitano solo quando qualcuno della propria parte è vittima ma, poi, sono pronti ad infierire e ad alimentare insulti e contenuti sessisti che colpiscono esponenti della parte avversa.
La terza ed ultima è che un conto sono le bufale, un conto sono i siti di “fake news” che spopolano sul web, altra cosa è la pur discutibile strumentalizzazione da parte degli organi di informazione di determinate notizie, di determinati argomenti, così come la libera scelta (discutibile quanto si voglia) di dare maggiore risalto ad alcune notizie piuttosto che ad altre. Dovrebbe essere semplice comprendere la profonda differenza che esiste, invece si continua a fare una terribile confusione (alimentata ad arte per i soliti motivi di propaganda politica). Un conto è inventare di sana pianta notizie che non esistono, che sono false, che non hanno alcun aggancio con la realtà. Tutt’altra cosa è la legittima scelta di una determinata linea editoriale da parte di ogni organo di informazione (fatta eccezione per la Rai che, almeno sulla carta, dovrebbe essere un servizio pubblico).
Per cercare di capirci, il “Fatto Quotidiano”, ad esempio, da sempre ha avuto una linea editoriale molto aggressiva nei confronti prima di Berlusconi, poi dei vari governi pseudo tecnici e, negli ultimi tempi contro l’ex premier e attuale leader del Pd Matteo Renzi (nei confronti del quale è tuttora in atto una ferocissima campagna, discutibile quanto si voglia, ma pienamente legittima). Per farlo ha sempre amplificato tutti gli aspetti negativi dell’operato di quel governo, ha spesso strumentalizzato ogni genere di iniziativa, facendo passare in secondo piano (o addirittura ignorando) tutte quelle notizie che potevano in qualche modo mettere in buona luce il premier e il suo esecutivo. Allo stesso modo il “Messaggero” ha condotto una durissima battaglia prima contro il sindaco di Roma Marino ed ora contro l’attuale prima cittadina Raggi, amplificando e dando ampio spazio ad ogni notizia vagamente negativa nei loro confronti.
Comportamento discutibile? Assolutamente si, sia quello del “Fatto Quotidiano” che del “Messaggero”. Personalmente ho tutta un’altra visione di cosa sia il giornalismo e credo che il punto di partenza dovrebbero essere sempre e comunque i fatti. Ma per quanto ci possa non piacere la linea editoriale di quei due giornali, per quanto si possano criticare, dovrebbe comunque essere chiaro che non sono e non possono essere neanche lontanamente paragonabili (come invece cerca di fare proditoriamente qualcuno, ovviamente non riferendosi in particolare solo a quei due organi di informazione) ai siti che producono bufale, le cosiddette “fake news” (poi se quegli o altri giornali riportano informazioni false ci sono tutti i mezzi per rivalersi contro di loro).
Fatta questa lunga ma doverosa premessa, cerchiamo di capire cosa sta accadendo in questi giorni intorno a questi delicati argomenti. Partendo dalla notizia più recente, di mercoledì 15 febbraio, della proposta di legge arrivata in Senato contro le cosiddette “fake news”. “Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica”, questo è il titolo della norma la cui prima firmataria è l’ex 5 Stelle Adele Gambaro ma che vede adesioni praticamente da tutti i gruppi parlamentari. Immediatamente da alcune parti si è gridato al tentativo di bavaglio al web, della volontà di porre un limite alla libertà di espressione.
Ma davvero c’è questo rischio? Analizzando nel dettaglio la proposta di legge occorre, innanzitutto, evidenziare come il suo obiettivo è quello di fermare chi diffonde notizie false su social media o siti “non espressione di giornalismo online”, di contrastare l’anonimato dietro cui si trincerano quei siti e di obbligare i gestori delle piattaforme informatiche di monitorare con maggiore attenzione i contenuti che circolano al loro interno. E, in linea di principio, credo che sia difficile non essere d’accordo con l’obiettivo che si pone la nuova norma. Naturalmente, poi, è importante capire in che modo si intendono perseguire gli obiettivi stessi.
All’articolo 1 si sancisce che “chi pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose attraverso social media o siti che non siano espressione di giornalismo online è punito con un’ammenda fino a 5 mila euro”. Se, poi, la notizia falsa “può destare pubblico allarme” o “recare nocumento agli interessi pubblici”, all’ammenda si aggiunge anche la reclusione non inferiore a 12 mesi. Per chi, invece, si rende responsabile “di campagne d’odio contro individui” o “volte a minare il processo democratico” la sanzione aumenta, con ammenda fino a 10 mila euro e reclusione non inferiore a 2 anni.
Viene, poi, posto l’obbligo, a carico di chiunque apra un qualsiasi blog, sito o forum diretto alla pubblicazione o diffusione di informazioni, di inviare tramite posta certificata tutte le informazioni personali alla Sezione stampa del tribunale. Previste ammende anche per le piattaforme informatiche, che sono obbligate a monitorare costantemente ciò che viene pubblicato al loro interno, che non rimuovono un contenuto “falso, esagerato o tendenzioso”. Infine c’è anche una parte educativa nella norma che stabilisce che gli istituti scolastici devono individuare tra gli obiettivi formativi “l’alfabetizzazione mediatica” e formare i ragazzi “all’uso critico dei media”.
Che dire, ci sembra nel complesso una proposta più che condivisibile, anche se con qualche aggiustamento, atto proprio ad evitare qualsiasi strumentalizzazione che possa andare nella direzione di una qualche forma di inopportuna censura. A tal proposito sarebbe molto più corretto e meno rischioso limitarsi a perseguire e punire chi diffonde notizie false, togliendo ogni riferimento a notizie “tendenziose ed esagerate” che potrebbero dare adito a possibili e inopportune strumentalizzazioni. Stesso discorso per quanto concerne la “stretta”, giustissima, per evitare “campagne di odio contro individui”, del tutto fuori luogo e facilmente passibile di strumentalizzazioni e possibili intenti censori è il riferimento “volte a minare il processo democratico”. Affermazione troppo generica e teorica che potrebbe prestarsi ad un’interpretazione restrittiva che, in qualche modo, si potrebbe tradurre in inopportuni interventi censori.
Depurata di queste possibili strumentalizzazioni, la norma e la battaglia contro le notizie false e, ancora di più, contro le campagne d’odio sul web, ci appare sacrosanta e difficilmente non condivisibile. Per quale improbabile ragione bisognerebbe, infatti, tollerare e garantire l’assoluta impunità a chi fabbrica volutamente notizie chiaramente false? Senza dilungarci troppo, basterebbe ricordare ciò che ha sancito la Cassazione in merito ai limiti del diritto costituzionalmente garantito della libertà di espressione. “Non possono essere ammesse espressioni di pensiero atte a determinare azioni pericolose per la pubblica sicurezza come l’istigazione, l’apologia dei delitti e la diffusione di notizie false o tendenziose. Inoltre il diritto di ognuno a manifestare il proprio pensiero non deve ledere la dignità altrui, sono quindi considerati delitti l’ingiuria e la diffamazione”.
La “ratio” che ha spinto la Cassazione è semplice e facilmente comprensibile, è pienamente legittimo esprimere (anche con forza) la propria opinione, sollevare critiche, polemiche. Altra cosa è diffondere notizie false, ingiuriare ed offendere, comportamenti che configurano un reato. Ed è sin troppo ovvio che in nessun paese civile potrebbe mai esistere la libertà di commettere un reato, quanto meno non senza pagarne le inevitabili conseguenze. Così come è del tutto fuori luogo parlare di censura e, tanto meno, di attentato alla libertà di espressione, alla libertà di stampa che, come detto, sono altra cosa rispetto alla (improponibile) libertà di inventare notizie false.
Tra l’altro siamo davvero stanchi di sentire ripetere, da parte di chi non vorrebbe alcuna forma di regolamentazione contro le fake news, la solita storia che allora bisogna prevedere pesanti sanzioni anche contro i giornali e i giornalisti che, a loro detta, sono i veri produttori di notizie false. Il tutto, poi, citando la solita storia della pessima posizione del nostro paese (77° posto) nella speciale classifica sulla libertà di stampa, che per costoro sarebbe la conferma dell’inaffidabilità del giornalismo e dei giornalisti italiani. Ed il guaio è che a fare determinate affermazioni, a sostenere certe tesi sono anche illustri politici e, addirittura, anche alcuni giornalisti stessi.
Lo hanno ribadito, ad esempio, nei giorni scorsi in tv prima Di Battista poi il vicepresidente della Camera Di Maio, ottenendo l’appoggio del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio (ma nei mesi passati lo ha più volte sostenuto anche Massimo D’Alema e riferimenti simili li ha fatti anche l’ex premier Renzi). Non ci è mai piaciuto difendere a prescindere la nostra categoria e non abbiamo mai nascosto che nel complesso non abbiamo una grandissima opinione del mondo del giornalismo italiano. Però siamo davvero stufi di questi pregiudizi che, tra l’altro, si basano su presupposti completamente stravolti.
Perciò è opportuno una volta per tutte chiarire a tutti coloro che ancora insistono con la storia di quel 77° posto che la posizione così deludente e imbarazzante del nostro paese, nella classifica redatta da Reporters sans frontières (RSF), non è certo determinata dalla bassa qualità o dalla scarsa attendibilità dei nostri giornalisti ma dal clima pesantemente intimidatorio nel quale i giornalisti italiani stessi sono costretti ad operare, con un vero e proprio record di giornalisti minacciati, costretti a vivere sotto scorta e intimiditi con l’arma della querela. D’altra parte la metodologia utilizzata da RSF per stilare la classifica si basa su criteri qualitativi e quantitativi. I primi riguardano aspetti come legislatura, trasparenza, infrastrutture, pluralismo, autocensura e si basa su opinioni soggettive (non a caso è un metodo molto criticato). I secondi, invece, vengono elaborati sulla base di alcuni dati come il numero di giornalisti uccisi, minacciati, denunciati, arrestati, licenziati.
Inoltre si tengono in considerazione i procedimenti giudiziari, le cause per diffamazione considerate ingiustificate. E sono proprio questi elementi che determinano il 77° posto dell’Italia dove, secondo RSF, quello del giornalista è un mestiere esposto a rischi di ogni tipo. A Di Battista, Di Maio e a tutti i “grillini” che parlano spesso a sproposito di questa classifica, è opportuno anche ricordare che, nell’edizione 2015, per quanto riguarda i problemi dell’informazione in Italia, RSF dedica addirittura un intero capitolo proprio al leader del Movimento 5 Stelle “Populist pressure on media” (La pressione populista sui media).
“In Italy, Beppe Grillo’s Five Star Movement (M5S) has no equal when it comes to information control. It strictly regulates the ability of its parliamentary representatives to give interviews, and seems to want to control journalists as well, vilifying them when they try to maintain their independence. Grillo has accused journalists of prostituting themselves and has barred the national media from some of his meetings”. (“In Italia il Movimento di Beppe Grillo (M5S) non ha eguali quando si parla di controllo dell’informazione. Esso controlla in modo ferreo la possibilità dei propri parlamentari di rilasciare interviste e sembra voler controllare anche i giornalisti stessi, diffamandoli quando questi cercano di mantenere una loro indipendenza. Grillo ha accusato i giornalisti di prostituirsi e ha impedito l’accesso dei media nazionali ai suoi meeting”).
Nulla di nuovo, in realtà, da sempre i nostri esponenti politici sono pronti a mettersi in prima linea in difesa della libertà di stampa e di espressione quando a minacciarla sono i propri avversari politici. Salvo poi comportarsi allo stesso identico modo quando si trovano loro al centro delle critiche. Basterebbe, ad esempio, ricordare le “crociate” e le manifestazioni in difesa della libertà di stampa organizzate dalla sinistra e dal Pd all’epoca delle epurazioni in tv ad opera di Berlusconi. Salvo, però, comportarsi sostanzialmente allo stesso modo quando si sono insediati al governo (e non hanno esitato a “mettere da parte” giornalisti scomodi).
Per loro, come per tutti i nostri politici (nessuno escluso), la libertà di stampa e di espressione è un diritto da tutelare solo fino a quando non finiscono essi stessi al centro delle critiche, degli attacchi mediatici. E’ il solito “moralismo a targhe alterne” tipico italiano che, ad esempio, ci porta a urlare e protestare quando qualcuno dei “nostri” è vittima di pesanti offese o, peggio ancora, di attacchi sessisti. Che, però, poi tolleriamo senza minimamente scomporci a parti inverse.
L’esempio più evidente è quanto accaduto di recente con il “vomitevole” titolo di Libero sulla sindaca Raggi (“Patata bollente”). Giusta e condivisibili l’irritazione e le proteste del Movimento 5 Stelle (anche se sarebbero state ancora più condivisibili se accompagnate da un sincero “mea culpa” per espressioni certo non meno pesanti e inaccettabili come quelle rivolte alla Montalcini, definita da Grillo “una vecchia puttana”, o quelle rivolte da un parlamentare grillino ad alcune parlamentari del Pd, “siete qui solo perché siete brave a fare i pompini”), molto triste vedere i distinguo e le improbabili giustificazioni di alcuni esponenti del Pd, che invece, proprio in virtù di quei precedenti, avrebbero dovuto prendere le difese della Raggi “senza se e senza ma”.
Imbarazzante, invece, l’incoerenza di Travaglio e del “Fatto Quotidiano” che per mesi hanno bersagliato alcune ministre del governo Renzi con vignette e titoli spudoratamente sessisti (basterebbe ricordare il famoso titolo rivolto alla Boschi “Maria Elena trivellata dai magistrati”) ed ora, invece, inveiscono e protestano contro Libero . E’ davvero triste e deprimente constatare come nel nostro paese siamo arrivati ad un punto in cui è praticamente impossibile tentare anche di condividere e impegnarci a rispettare poche regole, un minimo codice di comportamento comune che ci spinga, non a non confrontarci e a non scontrarci con veemenza e con passione, anche con toni forti, ma semplicemente a farlo nel rispetto reciproco.
Che significa anche non accettare mai certe degenerazioni, da qualsiasi parte provengano. E, soprattutto, nel pieno rispetto di quella sacrosanta libertà di espressione, libertà di pensiero. Che, però, non potrà mai essere anche libertà di offesa e libertà di inventare e diffondere notizie false…