Caso Toti tra il trionfo dei “cani da compagnia” e la scomparsa dell’etica pubblica
Montanelli ripeteva sempre che in Italia il giornalismo troppo spesso, più che il cane da guardia, è il cane da compagnia o da riporto del potere. E l’indecente comportamento di gran parte dell’informazione nella vicenda Toti è la conferma che, 50 anni dopo, nulla è cambiato…
Non sono solamente la legge “bavaglio”, le mani del governo sull’informazione pubblica, il continuo ricorso a querele intimidatorie da parte dei politici, le minacce delle organizzazioni mafiose e di vari piccoli gruppi estremisti violenti a spingere sempre più in basso l’Italia nella classifica sulla libertà di stampa ( dal 41° al 46° posto). Tra i problemi che affliggono l’informazione italiana, Reporter senza frontiere (Rsf) indica anche una sorta autocensura che si impongono i giornalisti per conformarsi alla linea editoriale della loro testata giornalistica, per evitare querele ma anche per quel brutto e antico vizio di essere sempre così accondiscendenti, quasi proni, di fronte al potente di turno.
Ne parlava già molti anni fa anche Indro Montanelli che amava ripetere che, mentre negli Usa e in Gran Bretagna il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia purtroppo quasi sempre è il cane da compagnia o da riporto. Circa 40 anni fa Bruno Vespa non si vergognava di sostenere quasi con orgoglio che, a proposito della Rai, “il mio editore di riferimento è la DC” ed in sostanza, allargando il discorso, quella sconcertante affermazione è tuttora quanto mai attuale per gran parte dell’informazione che, di fatto, è come se ritenesse che il proprio editore di riferimento è chi detiene il potere. Perché, al di là di giornali e giornalisti “schierati” più o meno apertamente, la maggior parte dell’informazione italiana si schiera a prescindere a fianco del potente di turno, di chi governa e detiene il potere, servendolo ossequiosamente, prendendo sempre e comunque le sue difese, spesso fino al punto di prostrarsi metaforicamente ai suoi piedi.
E’ esattamente quello che sta accadendo in questi giorni nella vicenda che ha portato all’arresto del presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, esempio lampante di come Rsf probabilmente è stata fin troppo tenera con l’informazione italiana. In nome di un finto ed ipocrita garantismo (principio che in questi anni, dalla politica e dall’informazione ad essa asservita, è stato strumentalizzato e trasformato in una sorta di inaccettabile desiderio di immunità e impunità per chi occupa posizione di potere), gran parte dell’informazione, senza neppure avere la decenza di leggere prima gli atti, è subito corsa in soccorso del potente di turno, in questo caso Toti, con le solite imbarazzanti e stucchevoli argomentazioni che, per altro, in questo caso specifico non sono in alcun modo pertinenti: la giustizia “ad orologeria”, la presunta volontà di condizionare la prossima tornata elettorale, il rischio (o la volontà) di sovvertire il risultato democratico delle elezioni.
“Il cittadino elettore, che non conosce la scientifica coerenza della giustizia, rischia di restare confuso e pensare che il target dell’indagine sia appunto quello di condizionare le elezioni europee alle porte, picconando il leader di uno dei partiti della maggioranza, o peggio quello di spezzare quel sottilissimo dialogo che si è aperto tra il governo e le toghe” scrive nel suo editoriale il commentatore politico de “Il Messaggero” Mario Ajello dopo aver a lungo disquisito e insinuato sospetti e illazioni sui tempi della giustizia. “Le cose in questo paese mi sembrano anormali. Mi domando, per esempio, se fosse necessario arrestare il presidente della Liguria Giovanni Toti. Ossia togliere la libertà ad un uomo non ancora condannato, quindi presunto innocente, e sovvertire un’altra volta il risultato democratico delle elezioni, poiché i liguri che avevano scelto un presidente ora non lo hanno più e non è facile che lo riabbiano” scrive invece Mattia Feltri su “La Stampa”, sottolineando poi in maniera sospetta come l’arresto sia avvenuto ad un mese delle elezioni europee.
Al di là del fatto che nessuno dei due spenda una sola parola sul quadro a dir poco inquietante, a prescindere dagli aspetti strettamente legali, che emerge da questa vicenda, il primario e più importante dovere di qualsiasi giornalista dovrebbe essere quello di riportare e basarsi sui fatti, esprimendo poi liberamente la propria opinione, sempre sulla base dei fatti, non su teoremi precostituiti che non hanno alcuna attinenza con la realtà. Ed in questo caso parlare di “giustizia ad orologeria”, ipotizzare che “il target dell’indagine sia quello di condizionare le elezioni europee” è semplicemente folle perché è la realtà stessa dei fatti a rendere ai limiti del demenziale certe illazioni. Non fosse altro per il semplice motivo, ampiamente noto anche a Feltri e Ajello, che né Toti né il suo partito (“Noi moderati”) si presentano alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno prossimi.
Per altro, al di là di ogni altra considerazione, parlare di “giustizia ad orologeria” di fronte ad una richiesta di provvedimenti cautelari presentata dal magistrato a fine dicembre (cioè a 6 mesi dalle elezioni) è oltre modo ridicolo. E non bisogna essere certo un esperto di cronaca giudiziaria per comprendere che ci vuole del tempo per poter analizzare a fondo gli atti di un’inchiesta che va avanti da oltre 3 anni, prima di poter prendere una qualsiasi decisione. Per certi versi, però, è ancora più sconcertante il fatto che, in forma simile, i due giornalisti critichino l’operato di giudice e magistrato sostenendo che in tal modo verrebbe sovvertito “il risultato democratico delle elezioni”.
In altre parole, secondo Ajello e Feltri chi viene democraticamente eletto dai cittadini (che sia un presidente di Regione, un sindaco, un parlamentare) automaticamente deve essere considerato al di sopra della legge, anche se commette qualsiasi crimine o reato non bisogna né indagare né tanto meno emettere alcun provvedimento nei suoi confronti perché altrimenti si rischia di sovvertire l’esito democratico delle elezioni. In realtà quello che viene evidentemente sovvertito è il buon senso, secondo questa surreale tesi chi viene eletto a rivestire un qualsiasi ruolo istituzionale non deve dimostrarsi e comportarsi in maniera degna e adeguata all’incarico che riveste ma, semplicemente per il fatto che è stato eletto e scelto dai cittadini, diventa automaticamente “intoccabile”.
Siamo ben oltre il concetto di immunità su cui si è molto dibattuto e discusso negli anni passati, qui siamo alla teorizzazione dell’impunità per la casta dei politici. Ribadendo con convinzione che i processi si fanno nelle sedi competenti (tribunali) e che la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giustizia deve valere sempre per tutti, sconcerta che una certa informazione finga di non vedere che il vero nocciolo di tutta la vicenda è il preoccupante riproporsi di un modello inaccettabile di gestione del potere, che il quadro che emerge dall’inchiesta è a dir poco imbarazzante tra accuse di un sistema corruttivo molto radicato, con tangenti, regalie e finanziamenti in cambio di favori, ma anche voto scambio e rapporti con clan mafiosi (in particolare al capo di gabinetto di Toti, Matteo Cozzani, si contesta il reato di corruzione elettorale commesso per agevolare l’attività di mafia, in particolare del clan del mandamento di Riesi radicato nella provincia di Caltanisetta ma attivo anche in Lombardia e Liguria).
Soprattutto sarebbe quanto mai necessario affrontare il problema, legato al finanziamento della politica, sull’interesse pubblico e l’interesse privato. A prescindere dall’aspetto strettamente legale (di pertinenza di magistrati e giudici), è accettabile che un amministratore conceda in tempi record e molto più veloci del solito concessioni per nuovi centri commerciali, concessioni portuali che valgono oro per 30 anni, che addirittura trasformi una spiaggia pubblica in privata, in altre parole che emetta determinati provvedimenti che mirano esclusivamente non all’interesse comune di tutti i cittadini ma esclusivamente a quelli dei propri finanziatori (gruppi o singoli cittadini)? La risposta è sin troppo scontata ed il fatto che politici e amministratori, ma anche l’informazione, non si pongano neppure questo interrogativo è quanto mai significativo.
Ed è il segnale inequivocabile che per la politica italiana e per grande parte dell’informazione l’etica pubblica, intesa come corretto agire di chi riveste ruoli istituzionali al servizio della collettività e nell’interesse di tutti i cittadini, non è più un principio e un valore inderogabile. Per concludere con la vicenda che riguarda il presidente della Regione Liguria, è inutile e tardiva la discussione sull’opportunità o meno delle dimissioni.
In un paese civile e normale Toti si sarebbe dimesso da tempo, per lo meno da quando, in piena pandemia covid e con quasi mille morti al giorno nel nostro paese, aveva incredibilmente sottolineato che a morire erano soprattutto anziani “persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”.