Acerbi, è stato assolto perché l’offesa c’è stata ma non ci sono prove che sia di stampo razzista. Peccato, però, che in casi analoghi del passato è stato affermato il principio che per condannare sono sufficienti le dichiarazioni della persona offesa
Se c’è una cosa che riesce sempre alla perfezione al calcio italiano e alle sue istituzioni è quella di riuscire a rendersi ridicoli oltre ogni immaginazione. E in tal senso in questi giorni è arrivata una doppietta a dir poco imbarazzante, prima con l’assurda tournee lampo negli Stati Uniti, poi con la sconcertante gestione e la decisione finale sul caso Acerbi. Nel momento cruciale della stagione, con in arrivo le sfide decisive in campionato, in Coppa Italia e nelle coppe europee, solo dei “geni” potevano pensare di sottoporre i giocatori della nazionale italiana ad un duro ed evitabile tour de force (appesantito dal problema del fuso orario) per disputare due amichevoli con nazionali come l’Ecuador e il Venezuela. Chissà se qualcuno della federazione si è chiesto come mai tutte le altre nazionali europee sono rimaste nel continente per affrontarsi tra loro o per affrontare nazionali un “tantino” più accreditate come il Brasile e la Colombia.
E proprio mentre era in corso questo assurdo tour oltre oceano, è stata scritta l’ennesima pagina poco edificante, con protagonisti i vertici federali e i propri organi giudicanti che, per l’ennesima volta, non hanno perso l’occasione di dimostrare che nel calcio italiano la legge non è mai uguale per tutti e che in situazioni identiche le decisioni e le eventuali sanzioni dipendono dal censo della squadra e dei giocatori implicati. Accade in continuazione con imbarazzante frequenza e il peggio è che ormai ci si è assuefatti al fatto che le società cosiddette “grandi” e i loro tesserati ricevono un trattamento differente e privilegiato rispetto alle altre squadre, nei confronti delle quali si usa sempre il “pugno duro”.
Molto spesso, poi, per giustificare l’ingiustificabile si tirano fuori motivazioni talmente ridicole e risibili che contribuiscono a peggiorare ulteriormente la situazione. A tal proposito basterebbe ricordare quanto accaduto qualche anno fa quando, mentre una delle cosiddette “piccole” veniva estromessa dal campionato di competenza per irregolarità nel pagamento dei contributi dei tesserati (non aveva rispettato le scadenze di quei pagamenti, ritenute dai vertici federali assolutamente tassative), una delle “grandi” vinceva trionfalmente lo scudetto, senza subire neppure una minima penalizzazione, pur non avendo pagato stipendi e contributi ai propri tesserati per diverse mensilità. Un’inaccettabile disparità di trattamento che si è ripetuta nelle ore scorse nella vicenda che ha coinvolto il difensore dell’Inter Acerbi e quello del Napoli Juan Jesus, con quest’ultimo che ha accusato il giocatore neroazzurro di avergli rivolto un insulto razzista (“Va via nero, per me sei solo un negro”).
Come ormai è noto dopo l’indagine della Procura federale il giudice sportivo ha deciso di non sanzionare Acerbi perché non ci sono prove certe e provate che l’insulto ricevuto dal giocatore del Napoli sia stato realmente di stampo razzista. Ma se in astratto una simile conclusione può essere considerata formalmente condivisibile (sul base del noto “oltre ogni ragionevole dubbio”), ci sono alcuni particolari di certo non irrilevanti che non possono non far riflettere. Innanzitutto perché, per quanto si possa essere più o meno d’accordo, la giustizia sportiva e calcistica italiana in realtà si è sempre basata sul principio esattamente contrario, cioè che spetta all’imputato (che sia la società o che sia un suo tesserato) dimostrare la sua eventuale innocenza.
Un principio assolutamente barbaro e francamente inaccettabile che però viene applicato sempre quando ci sono certe società e certi tesserati e che poi, magicamente, non vale più per le solite società e per determinati tesserati. In tal senso ci sono dei precedenti praticamente simili alla vicenda che ha coinvolto Acerbi. Il 22 dicembre 2020, dopo la partita di serie B tra Pisa e Chievo il centrocampista di colore gialloblu Joel Obi accusò l’attaccante toscano Michele Marconi di avergli rivolto un insulto razzista. Anche in quel caso non c’erano prove ma il giocatore del Pisa venne condannato a 10 turni di squalifica perché, come si legge nella sentenza, “a livello di giustizia sportiva è stato affermato che per dichiarare la responsabilità del soggetto incolpato di una violazione disciplinare non è necessaria la certezza assoluta della commissione dell’illecito, né il superamento di ogni ragionevole dubbio, come invece nel processo penale, ma può ritenersi sufficiente un grado inferiore di certezza”.
Poco meno di un mese dopo, il 17 gennaio 2021, un nuovo episodio nella partita Sambenedettese – Padova, con il centrocampista ghanese rossoblu Shaka Mawuli che accusa di insulti razzisti l’attaccante veneto Claudio Santini. Anche in questo caso arriva la squalifica per 10 turni, con un ulteriore fondamentale precisazione nella sentenza. “Assumono, pertanto, rilevanza – si legge nel dispositivo – principi consolidati in giurisprudenza, specialmente in sede penale, in particolare: a) il fatto contestato può ritenersi provato anche se il quadro probatorio sia formato dalle sole dichiarazioni della persona offesa, purchè sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, e senza la necessità della presenza di riscontri esterni”.
In altre parole secondo la giustizia sportiva italiana per Marconi (Pisa) e Santini (Pisa) non servono prove concrete e sono sufficienti le dichiarazioni della persona offesa, per Acerbi (Inter) invece chissà perché certi “principi consolidati” improvvisamente non valgono più. Per dovere di cronaca è giusto ricordare che in realtà certi principi non sono valsi neppure per Ibrahimovic (Milan), accusato di aver rivolto un insulto razzista a Lukaku nel derby di coppa Italia del gennaio 2021, guarda il caso negli stessi giorni del caso Santini. E’ semplicemente sconcertante come, senza alcuna vergogna, nella sentenza del caso Acerbi si arrivi addirittura ad affermare l’esatto contrario di quello che era stato sancito 3 anni fa.
“La condotta discriminatoria – si legge nella sentenza assolutoria su Acerbi – per la sua intrinseca gravità e intollerabilità, perdipiù quando riferita alla razza, al colore della pelle o alla religione della persona, deve essere sanzionata con la massima severità a norma del Codice di giustizia sportiva e delle norme internazionali sportive, ma occorre nondimeno che l’irrogazione di sanzioni così gravose sia corrispondentemente assistita da un benché minimo corredo probatorio, o quanto meno da indizi gravi, precisi e concordanti in modo da raggiungere al riguardo una ragionevole certezza”. Ma poiché al peggio non c’è mai fine, la sentenza supera ogni senso del ridicolo nella parte in cui viene sottolineato che è stata “raggiunta sicuramente la prova dell’offesa ma rimanendo il contenuto gravemente discriminatorio confinato alle parole del soggetto offeso” che, come abbiamo imparato dalle sentenze di questi anni, è sufficienti per condannare certi tesserati ma non quelli delle cosiddette “grandi”.
Per altro nel momento in cui è certo, come si scrive nella sentenza, che Acerbi ha offeso il giocatore del Napoli, anche se non è provato che si tratti di un insulto discriminatorio, il giocatore dell’Inter doveva comunque essere squalificato per 2 giornate per condotta gravemente antisportiva (art. 39 del Codice di giustizia sportiva). Sarebbe, poi, interessante sapere quale sarebbe l’insulto che Acerbi avrebbe rivolto a Juan Jesus, visto che il giocatore dell’Inter ha dichiarato alla stampa di avergli detto “ti faccio nero” che non può certo essere considerato un insulto (ed ovviamente è difficile pensare che Acerbi abbia fornito alla procura federale una versione differente, sarebbe stato un clamoroso e decisivo autogol).
Per altro, se davvero avesse fatto solamente quell’affermazione, sarebbe difficile capire per quale ragione lo stesso Acerbi, dopo le proteste di Juan Jesus con l’arbitro, si sia sentito in dovere di chiedere scusa per ben due volte al giocatore napoletano. Sarebbe stato sufficiente dirgli che aveva frainteso e capito male, senza dover chiedere scusa. “Mi ha chiesto scusa, aggiungendo che per lui negro è un insulto come un altro” ha affermato il giocatore azzurro. Che evidentemente dovrebbe avere una particolare fantasia se si è inventato completamente una cosa del genere. Dopo la sentenza il Napoli, per protesta, ha deciso di non aderire alla campagna contro il razzismo della Lega calcio.
“Il Napoli non aderirà più a iniziative di mera facciata delle istituzioni calcistiche contro il razzismo e le discriminazioni, continueremo a farle da soli, come abbiamo sempre fatto, con rinnovata convinzione e determinazione” si legge nel comunicato della società partenopea, in questo caso assolutamente da condividere in pieno.