Non è un paese per donne…


Peggiora la differenza di genere (gender gap) nel nostro paese che secondo il Global Gender Gap Report nel 2023 perde 16 posizioni  collocandosi al 79° posto mondiali e al 21° posto per quanto riguarda i paesi dell’Unione europea

Peggiora la situazione per quanto riguarda la differenza di genere (gender gap) nel nostro paese. E’ quanto emerge dal Global Gender Gap Report, il rapporto annuale stilato dal World Eonomic Forum (WEF) sulla base di una serie di indicatori rilevati dalle Agenzie dell’Onu e della Commissione europea dal 2006 in 146 paesi. Stesso risultato anche dal monitoraggio effettuato, ovviamente a livello esclusivamente europeo, dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) dal 2013. In entrambi i casi viene assegnato ad ogni paese un punteggio da 1 a 100 che sta a significare la percentuale di divario colmata dal paese stesso. Complessivamente il quadro che emerge dal Global Gender Gap Report evidenzia come si proceda a rilento, con un miglioramento rispetto all’anno precedente dello 0,3% e la stima che, secondo il ritmo attuale, ci vorranno 131 anni per raggiungere la piena parità.

La novità è che nel 2023 si è verificato il sorpasso, con l’Europa che con il 76,9% del gap colmato supera il Nord America che si ferma al 75%. I paesi migliori, con percentuale superiore al 90%, si confermano Islanda e Norvegia seguiti dalla Finlandia che è quello che fa registrare la crescita maggiore nell’ultimo anno. Continua, invece, a peggiorare la situazione dell’Italia che vede scendere il suo punteggio al 70,5% (nel 2021 era al 72,1, lo scoro anno al 71,5%), collocandosi al 79° posto mondiale (perdendo 16 posizioni) e al 21° posto per quanto riguarda i paesi dell’Unione europea. Risultato praticamente analogo per l’Italia nel monitoraggio Eige  nel quale, però, il nostro paese ottiene un punteggio leggermente inferiore, 68,2, con punteggi bassi e molto al di sotto della media europea in 4 delle 6 dimensioni chiave (conoscenza, potere economico politico e sociale, lavoro e tempo) prese a riferimento dal monitoraggio stesso.

Dati migliori arrivano invece dalle dimensioni denaro e salute.  Nel complesso ciò che emerge dai rapporti internazionali è che l’Italia, pur facendo parte di un gruppo di eccellenti, rimane tra gli ultimi paesi dell’Unione europea in tema di discriminazioni di genere. E i dati mostrano che il primo passo verso il miglioramento lo si fa partendo dai banchi di scuola perché il divario nasce lì, passando poi attraverso le scelte di specializzazione universitarie e arrivando infine nel mercato del lavoro. Eppure i dati sulle performance scolastiche e universitarie da anni evidenziano come le ragazze hanno un percorso scolastico migliore rispetto ai ragazzi, dalle medie fino all’università, con una netta maggioranza di donne (il 60%) sul totale dei laureati e voti mediamente migliori rispetto a quelli degli uomini.

Ma il vero divario di genere nell’ambito della conoscenza sta nelle scelte delle aree disciplinari, già alle scuole superiori e che poi si acuisce con la scelta del percorso universitario. Una tipologia di divario che poi ha un impatto molto forte su quanto accade nella fase successiva della vita delle donne: la carriera lavorativa. Le laureate sono concentrate soprattutto nelle discipline umanistiche, gli ambiti disciplinari che registrano la parità sono quelli di economia, agraria, veterinaria, architettura e ingegneria civile, mentre le discipline informatiche, ingegneristiche e le scienze motorie osservano una prevalenza maschile. In ogni caso le donne ottengono voti più alti in quasi tutte le aree disciplinari. L’aspetto più rilevante, però, è che i dati confermano come le ragazze continuano ad autoescludersi dai cosiddetti percorsi Stem (le discipline scientifico-tecnologiche), mentre la polarizzazione del lavoro e la crescente domanda di professionalità in ambito digitale e tecnologico implicano la crescente necessità di competenze che si ottengono proprio nei percorsi Stem.

L’esclusione e l’autoesclusione sistematica delle ragazze da queste discipline è quindi un fatto che potenzialmente incrementerà la disoccupazione femminile e il gender gap di domani. I dati di “AlmaLaurea” lo confermano, la percentuale di donne laureate in discipline Stem è pari al 40,9%, con un gap retributivo del 14%. Ma se si considerano le Hard Stem (le materie ingegneristiche, informatiche e tecnologiche) i gap si amplificano notevolmente. E’ poi nell’ambito del lavoro che le differenze si accentuano. Partendo dal fatto che l’occupazione femminile nel nostro paese è del 18% inferiore rispetto a quella maschile (51% contro il 69%). Complessivamente le donne occupate sono di meno, trovano meno lavoro e tendenzialmente sono meno spinte a far parte della forza lavoro, con le donne non laureate che principalmente scontano la minor presenza sul mercato. E, in aggiunta, la qualità dell’occupazione femminile non è equiparabile a quella degli uomini in termini di ore lavorative. Un dato su tutti, nel 2022 sul totale dei nuovi contratti di lavoro attivati alle donne il 49% sono part-time.

Alla radice di questa situazione c’è soprattutto il fatto che spesso l’onere di doversi occupare in prima persona della prole e dei familiari anziani spetta alle donne. L’Italia è infatti al 5° posto tra i paesi Oecd (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) con un gap sul tempo di lavoro di cura più elevato, con le donne italiane che passano in media oltre 5 ore al giorno ad occuparsi del lavoro di cura rispetto a poco più di 2 degli uomini. Uno degli indicatori che pesa maggiormente nella posizione dell’Italia per quanto riguarda il gap gender è la quota ridotta di donne in posizioni strategiche o di potere, siano questi ruoli apicali nelle organizzazioni o incarichi politici e istituzionali.

In pratica in Italia continuano ad esserci una consistente “segregazione verticale” (meno donne presenti in posizioni dirigenziali) ed un altrettanto importante “segregazione orizzontale” (concentrazione femminile in alcuni settori o aree funzionali all’interno delle aziende). La disparità risulta molto evidente e accentuata nel privato mentre nel pubblico il gap, seppure presente, è minore. Complessivamente sono uomini il 67% dei dirigenti che diventano lì’83% nel settore privato. Grazie alla legge Golfo-Mosco del 2011 e ad una successiva norma del 2019 (legge 160) la situazione è invece in miglioramento per quanto riguarda i cosiddetti top job, cioè i ruoli apicali delle imprese quotate. Per effetto della normativa che ha voluto stabilire regole per assicurare una presenza paritaria si è passati da una presenza del 5,9% di donne nei CdA del 2008 al 42,9% del 2022.

Bisogna, però, considerare che solo il 15,9% occupa ruoli esecutivi (ruolo attivo nella gestione delle società), mentre l’84,1% riveste ruoli meramente consultivi. Le conseguenze di questi dati si evidenziano, poi, nel gender pay gap, il differenziale salariale. Se si guarda al divario retributivo di genere complessivo, ovvero alla differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini, l’Italia è tra i peggiori paesi dell’Europa dopo Olanda, Austria e Svizzera. Nel dettaglio il report indica per il 2022 un pay gap del settore privato dell’8,7% sulla retribuzione annuale lorda che si estende al 9,6% se si considera la retribuzione globale annua. Questo si traduce in un ritardo retributivo per le lavoratrici italiane che, in altri termini, è come se avessero iniziato a percepire lo stipendio solo il 2 febbraio pur avendo lavorato fin dal 1 gennaio. In termini strettamente monetari il gap ammonta a circa 2.700 euro sulla retribuzione annuale lorda e a 3.000 euro su quella globale annua. Il gap più elevato si osserva tra le figure impiegatizie (10,5%), mentre quello basso tra figure di quadro (4,9%).

Al di là del dato in sé – commenta Federico Ferri di Jobprincing – credo sia importante tenere presente che oltre ad identificare i casi di discriminazione a parità di ruolo, o di valore del ruolo, per consentire reali pari opportunità di guadagno tra uomini e donne serve intervenire sulle cause principali del divario salariale. Mi riferisco alla cosiddetta child penalty, al “pavimento appiccicoso”, alla “leaky pipeline”, al “soffitto di cristallo: sono parole che alla maggior parte delle persone dicono poco, ma che raccontano l’estrema difficoltà che le donne vivono nell’entrare nel mondo del lavoro, nel percorso di carriera, e in fin dei conti nel conciliare le aspettative che la cultura dominante ha nei loro confronti come madri, caregiver e lavoratrici. Credo che questo sia l’ambito principale su cui lavorare, nelle politiche pubbliche, nelle aziende e anche dentro le famiglie e la società tutta”.

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