Una sentenza della Corte di Cassazione stabilisce che per i danni alla salute provocati dalla movida i residenti possono chiedere il risarcimento ai Comuni “che non garantiscono il rispetto delle norme di quiete pubblica e non tutelano la salute dei cittadini”
Per i danni alla salute provocati dalla movida i residenti possono chiedere il risarcimento ai Comuni “che non garantiscono il rispetto delle norme di quiete pubblica e di conseguenza non tutelano la salute dei cittadini”. E’ destinata ad avere conseguenze decisamente rilevanti la sentenza 14209 della Terza sezione civile della Corte di Cassazione su un tema che da sempre provoca discussioni e polemiche. Secondo i giudici “la pubblica amministrazione è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, può essere condannata sia al risarcimento del danno patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione del diritto alla salute ma anche del diritto alla vita familiare e della stessa proprietà”.
Per comprendere l’impatto che una simile pronuncia della Cassazione può concretamente avere basterebbe pensare a quanto avviene ogni estate, ma spesso anche nei fine settimana degli altri periodi dell’anno, in centro nel capoluogo piceno, con le continue e inascoltate proteste dei residenti per la musica alta e gli schiamazzi fino a tarda ora. In teoria ora quei residenti, oltre a lamentarsi, potrebbero chiedere un risarcimento al Comune che, inevitabilmente, a sua volta dovrà prestare maggiore attenzione ed essere meno tollerante sulla movida, per evitare di doversi poi trovare nei guai. La pronuncia della Cassazione riguarda una vicenda accaduta qualche anno fa a Brescia in una storica strada del capoluogo bresciano, via Fratelli Bandiera, che praticamente ogni sera si riempie di giovani universitari.
Alcuni residenti, tra cui il fratello del sindaco di allora Adriano Andreoli, spazientiti dei continui schiamazzi e delle mancate risposte da parte dell’amministrazione comunale, hanno deciso di chiedere un risarcimento al Comune. Ed in primo grado il Tribunale di Brescia diede loro completamente ragione, condannando il Comune a pagare un risarcimento di circa 30 mila euro ad ognuno dei ricorrenti (per danno patrimoniale e non patrimoniale) e, addirittura, imponendo all’amministrazione comunale di predisporre un servizio di vigilanza, dal giovedì alla domenica da maggio ad ottobre, con l’impiego di agenti comunali che, entro la mezzora successiva alla chiusura, avrebbero dovuto disperdere la folla.
Ovviamente il Comune di Brescia ha presentato ricorso contro quella sentenza, pienamente accolto dalla Corte di appello che ha completamente rovesciato il verdetto sostenendo che la titolarità passiva del rapporto giudizio non spettava al Comune in assenza di norme specifiche che ne imponessero l’obbligo di un puntuale intervento al riguardo (che non si riducesse al mero dovere di assicurare la quiete pubblica) e, per altro verso, escludendo che le pretese azionate dagli attori potessero radicare un potere del giudice ordinario di determinare le modalità di intervento della pubblica amministrazione.
“La tutela del privato che lamenti la lesione – scrive la Corte di Cassazione – anzitutto del diritto alla salute costituzionalmente garantito e incomprimibile nel suo nucleo essenziale (art. 32 Costituzione), ma anche del diritto alla vita familiare convenzionalmente garantito e della stessa proprietà (che rimane diritto soggettivo pieno sino a quando non venga inciso da un provvedimento che ne determini l’affievolimento), cagionata dalle immissioni (nella specie acustiche) intollerabili provenienti da area pubblica (nella specie da una strada della quale la pubblica amministrazione è proprietaria) trova fondamento, anche nei confronti della pubblica amministrazione, anzitutto nelle stesse predette norme a presidio dei beni oggetto dei menzionati diritti soggettivi. La pubblica amministrazione stessa, infatti, è tenuta ad osservare le regole tecniche o i canoni di diligenza e prudenza nella gestione dei propri beni e, quindi, il principio del neminem laedere con ciò potendo essere condannata sia al risarcimento del danno (artt. 2043 e 2059 c.c.) patito dal privato in conseguenza delle immissioni nocive che abbiano comportato la lesione di quei diritti, sia la condanna ad un facere, al fine di riportare le immissioni al di sotto della soglia di tollerabilità, non investendo una tale domanda, di per sé, scelte ed atti autoritativi, ma, per l’appunto, un’attività soggetta al principio del neminem laedere”.
“Ne consegue la titolarità dal lato passivo del convenuto Comune a fronte delle domande, risarcitoria e inibitoria proposte dagli attori a fronte del dedotto vulnus che le immissioni intollerabili, provenienti dalla strada comunale in cui si trova la loro abitazione, sono idonee a cagionare ai diritti dai medesimi vantati” conclude la Cassazione. Fissando così un principio che impone alle amministrazioni comunali una profonda riflessione e, soprattutto, una diversa attenzione nella gestione della movida.