La tragedia di Bucha nella patria del “complottismo” e del “negazionismo”


Di fronte alle immagini di  Bucha, così come nel caso del dramma del piccolo Aylan o delle bare portate via dai camion militari a Bergamo, si assiste nel nostro Paese al solito ripugnante teatrino messo cinicamente in scena con la complicità di una parte dell’informazione

Come nel caso della tragedia di Aylan (il bambino siriano annegato davanti alla spiaggia turca di Bodrum nel 2015), come di fronte alle sconvolgenti immagini della colonna militare che trasporta fuori da Bergamo le bare con i morti per covid, così per le drammatiche foto e i video con i corpi in strada di inermi civili giustiziati a Bacha. Ormai da un po’ di anni a questa parte in tutti i fatti più drammatici e sconvolgenti nel nostro Paese ci tocca sempre assistere allo stesso insulso e ripugnante teatrino messo cinicamente in scena da quelli che vengono comunemente definitivi “negazionisti” e “complottisti”. Cambia solamente la composizione ma i meccanismi, le ragioni e il contorno in cui si sviluppa questo cinico e insopportabile teatrino sono praticamente identiche.

Nel 2015 era la parte più oltranzista della crescente fetta di opinione pubblica che, inebetita dall’incessante propaganda di alcuni partiti (Lega e Fratelli d’Italia su tutti), era contro ogni forma di accoglienza nei confronti degli extracomunitari. Nel periodo della pandemia era quel surreale universo che comprende i “negazionisti” duri e puri (quelli secondo cui il covid era una semplice influenza) e tutto il movimento no vax. Ora, invece, è una parte della sinistra unita ad alcune frange della destra che hanno in comune il più profondo antiamericanismo e la più tenace avversione nei confronti della Nato e che da settimane ripetono la barzelletta della denazificazione dell’Ucraina e della liberazione del Donbass, con inquietante e sinistra coincidenza con le motivazioni addotte dalla Russia per giustificare l’ingiustificabile.

Il filo comune che lega queste tre vicende e questi tre “schieramenti” così eterogenei è la necessità di dover negare l’evidenza che rischierebbe di sgretolare irrimediabilmente il castello di menzogne su cui si fondano le rispettive posizioni. Nel caso del povero Aylan la crudezza dell’immagine di un bambino annegato rischiava di intaccare la cieca e ferma convinzione di chi all’epoca chiedeva di chiudere sempre e comunque i nostri porti. Invece, con estremo cinismo, sostenendo che in realtà era tutta una macchinazione, addirittura che Aylan non esisteva e che quello nell’immagine era un “volgarissimo” bambolotto, ci si poteva accanire ulteriormente contro quello che veniva definito il “bussiness dell’accoglienza”.

Per quanto riguarda la pandemia le agghiaccianti immagini della fila di camion militari con le bare di Bergamo evidentemente smontavano irrimediabilmente le tesi di chi sosteneva che in fondo il covid era niente più che una semplice influenza, che a morire erano solo gli anziani e chi aveva già altre patologie (come se comunque fosse una consolazione o qualcosa di più accettabile…) e che, di conseguenza, non c’era alcun bisogno di tutti i provvedimenti presi in nome dell’emergenza. Ora, invece, nel caso delle drammatiche immagini che arrivano da Bucha (accompagnate poi da una serie impressionante di testimonianze) ammettere che quegli orrendi crimini sono stati commessi dall’esercito russo inevitabilmente significa dover riflettere e chiedersi se certe valutazioni sono corrette.

Molto più semplice, però, rifugiarsi dietro al comodo paravento del complotto, della negazione della veridicità di quelle immagini, nonostante la più imbarazzante evidenza contraria. Mentre chi, non essendo così ottuso al punto da negare la realtà, si trova quasi costretto ad ammettere che quanto raccontato da foto, video, immagini satellitari e testimonianze a Bucha è realmente accaduto trova rifugio cercando di spostare il tiro, sostenendo che anche gli “odiati” americani si sono macchiati di simili orrendi crimini, rimasti puntualmente impuniti, o aggrappandosi a quanto sarebbe avvenuto in questi anni nel Donbass.

Per quanto ci riguarda non abbiamo alcun dubbio e siamo pienamente consapevoli che effettivamente gli Stati Uniti dovrebbero essere gli ultimi a parlare e ad indignarsi di fronte a certi episodi. Ma, allo stesso tempo, questo non giustifica e non rende certo meno abominevole quello che hanno commesso e stanno commettendo i russi. Quanto al Donbass è un fragile alibi che non regge, come vedremo in seguito i report di Amnesty International disegnano un quadro decisamente differente rispetto a quello raccontato negli ultimi mesi da chi in qualche modo tende, se non a giustificare, comunque a capire le presunte ragioni che avrebbero spinto Putin ad intervenire.

L’altro filo comune che lega quelle vicende è il vergognoso comportamento da parte dell’informazione o almeno di una parte di essa. Che, senza mai sposare a pieno in nessuno di quei casi le tesi complottiste e negazioniste, non ha comunque mancato di dare loro una dignità che invece non hanno. Limitandoci a quanto sta accadendo in queste ore in merito alla vicenda di Bucha da un lato c’è il comportamento (già visto e sperimentato nel corso della pandemia) di chi, in nome della presunta pluralità, continua a dare ampio spazio alle tesi negazioniste, in particolare proposte dalla Russia stessa. Dall’altro c’è addirittura chi, senza mai sposare pienamente quelle teorie, comunque rilancia presunti fatti e informazioni che renderebbero quanto meno plausibili i dubbi.

Naturalmente è giustissimo riportare e dare spazio alla posizione dell’altra parte in causa (la Russia), così come ha ragione Toni Capuozzo quando sostiene che compito di un giornalista è quello di porre e di porsi delle domande. Però l’inviato Mediaset dovrebbe sapere che il compito di un giornalista è quello di cercare, ovviamente per quanto possibile, la verità, non la verità più gradita e conforme alle proprie convinzioni. E, al tempo stesso, riportare fedelmente i fatti che in qualche modo rispondono compiutamente alle domande che è giusto ed è lecito porsi.

Ed è un vero peccato dover constatare che il buon Capuozzo in questo caso ha completamente dimenticando di citare correttamente i fatti, costruendo la sua posizione di legittimo dubbio su una ricostruzione completamente sballata, guarda il caso esattamente corrispondente all’improbabile versione russa. In sintesi Capuozzo  sostiene che Bucha è stata liberata il 30 marzo, che il 31 marzo il sindaco non ha parlato di eccidi o stragi, che solo diversi giorni dopo, esattamente il 3 aprile sono emerse le prime immagini.

Per farla breve, non ne ha azzeccata neppure una. Perché il sindaco di Bucha Anatoly Fedoruk all’Adnkronos il 28 marzo denunciava già gli orrori commessi in città dall’esercito russo (“con il pretesto di scovare i nazisti i soldati russi hanno fatto irruzione nelle case, razziando tutto quello che potevano razziare e uccidendo chiunque provava a protestare. Qui a Bucha stiamo vedendo tutti gli orrori di cui abbiamo sentito parlare come crimini compiuti dai nazisti durante la seconda guerra mondiale”).

La mattina del 1 aprile, poi, in un video condiviso su Telegram il segretario del Consiglio comunale Taras Shapravsky affermava che “la liberazione di Bucha continua a attualmente la città resta ancora sotto occupazione” sottolineando poi la presenza in strada di mine e molti cadaveri di civili giustiziati. Poche ore dopo, esattamente alle 21 del 1 aprile, su twitter veniva pubblicato il primo video che mostrava i cadaveri in strada in Yablunska Street, seguito subito dopo da altri video simili. Senza dimenticare le inequivocabili immagini satellitari (che mostrano i corpi in strada già l’11 marzo), le testimonianze dei sopravvissuti, i reportage di una serie impressionante di giornalisti e foto reporter. Di fronte ai quali chi, come Toni Capuozzo, ha avuto l’imprudenza di sposare le improponibili tesi russe, dovrebbe fare un esame di coscienza e chiedere scusa, se in buona fede, per il grave errore commesso.

D’altra parte, però, basterebbe aver letto il libro “La Russia di Putin” o uno dei reportage di Anna Politkovskaja, la giornalista russa uccisa nel 2006 nel giorno del compleanno del sovrano russo, sugli orrori commessi dai russi in Cecenia. Ma anche i drammatici report di Amnesty International o di Human Rights Watch sulla stessa Cecenia ma anche in Siria e nel più volte citato, spesso a sproposito, Donbass e in Crimea.

Per chi non ha memoria, parliamo ad esempio del massacro di Katyr-Yurt, degli oltre 50 mila morti civili, delle 5 mila sparizioni degli stupri, dei saccheggi e delle esecuzioni compiute in Cecenia ma anche dei 18 casi solo tra gennaio e febbraio 2020, documentati proprio da Amnesty International, nelle province di Idlib, in quella occidentale di Aleppo e nordoccidentale di Hama in Siria.  In altre parole sarebbe sufficiente conoscere la storia e fatti più recenti, invece di lasciarsi guidare dai più ciechi e ottusi preconcetti costruiti con la propaganda e con l’ideologia, per non avere dubbi e non essere sorpresi su quanto è accaduto a Bucha. Che, purtroppo, probabilmente è destinato a diventare solamente il primo di tante altri drammatici casi simili.

In queste ore notizie e immagini simili stanno arrivando da Borodyanka, da Konotop, per non parlare di quello che sta emergendo ad Irpin. Di fronte alle quali cade anche l’ultima flebile giustificazione che vorrebbe che, quanto accaduto a Bucha, è semplicemente frutto della follia di un battaglione in ritirata  (per altro ci sono prove e testimonianze inequivocabili che le esecuzioni dei civili sono avvenute non nel corso del ritiro ma addirittura già nei primi giorni di occupazione). La realtà è che siamo di fronte ad  una precisa strategia dell’orrore che l’esercito russo mette sistematicamente in atto in queste circostanze, in questo caso resa più cruenta da una campagna contro l’Ucraina e gli ucraini che in Russia e nei territori a maggioranza russa viene attuata da anni.

Basterebbe ricordare che nel periodo della “rivoluzione arancione” (novembre 2004), l’ideologo di riferimento di Putin, Alexsandr Dugin, aveva costituito delle brigate di giovani militari russi che avevano il compito di seminare terrore e morte nel territorio ucraino, in particolare nelle zone a maggioranza russofona. E alcuni anni dopo, a partire nel 2011, nel Donbass e in Crimea lo stesso Dugin lanciò una violentissima campagna d’odio, con spot e video terrificanti, con la quale incitava i russi ad uccidere e sterminare gli ucraini, in una sorta di ripugnante pulizia etnica.

Poi, per carità, volendo possiamo continuare a parlare degli interessi degli Stati Uniti in questa guerra, dello spauracchio che rappresenterebbe la Nato, belle teorie che contengono anche più di un fondo di verità (a differenza di quelle totalmente infondate che parlano di denazificazione e di Donbass). Ma che le crude immagini di Bucha ci confermano che hanno a che fare solo marginalmente con questa assurda guerra…

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