Dopo le immotivate violenze contro ragazzi e ragazze nelle manifestazioni in memoria di Lorenzo Parelli la parlamentare Giuditta Pini torna ad invocare i codici identificativi. Adottati praticamente in tutta Europa ma avversati dai rappresentanti delle forze dell’ordine
Sia pure con colpevole e inaccettabile ritardo, sono arrivate reazioni alle vergognose cariche e manganellate delle forze dell’ordine contro inermi e inoffensivi ragazzi e ragazze (molti dei quali addirittura minorenni), scesi in piazza per protestare contro la morte del povero Lorenzo Parelli. Come avevamo evidenziato nell’articolo “Violenze di Stato contro gli studenti, la vergogna e il silenzio” il primo ad intervenire e chiedere chiarezza è stato il segretario del Pd Enrico Letta. Lunedì 31 gennaio, poi, è stata la volta del parlamentare di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni che ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla vicenda.
“La ministra Lamorgese e il governo devono rispondere di come sia stato possibile tutto ciò. A tutte e a tutti noi, ma soprattutto alla ragazza che alla fine del video dice agli agenti “potremmo essere figli vostri, perché ci picchiate” scrive Fratoianni sui social, mostrando anche dei video inquietanti, in cui si vedono le violente e immotivate cariche degli agenti. Nelle ore scorse, poi, è intervenuta anche la parlamentare del Pd Giuditta Pini che, partendo da quelle vergognose violenze nei confronti dei ragazzi, ripropone la questione dei codici identificativi per le forze dell’ordine.
“L’Italia è uno dei pochi paesi europei a non aver applicato la direttiva comunitaria per l’inserimento dei codici alfanumerici sulle divise della polizia durante le manifestazioni – scrive Giuditta Pini – il ritardo è ancora più grave perché il nostro paese è stato condannato per aver permesso che 59 manifestanti venissero torturati dalle forze dell’ordine durante il G8 di Genova. Faccio parte di quella generazione profondamente segnata dai fatti di Genova, non sarebbe dovuto succedere più, sarebbe dovuto cambiare tutto e invece sta succedendo di nuovo. Nel 2018 ho depositato una legge che prevede il codice alfanumerico sulle divise da indossare insieme alle bodycam in caso di manifestazioni. Questi strumenti tutelano sì le cittadine e i cittadini, ma tutelano prima di tutto le forze dell’ordine. Chi fa il proprio lavoro correttamente è giusto che non sia confuso con chi non lo fa. La legge è ferma, non è mai stata discussa né votata. Eppure è una norma di civiltà, perché averne paura?”.
A voler pensar male si potrebbe pensare verrebbe da pensare che la paura nasce dal fatto che poi, con i codici identificativi, certi comportamenti non sarebbero più ammessi, non ci si potrebbe poi coprire vigliaccamente dietro all’anonimato garantito da casco e cose varie per non dover rispondere di determinati abusi. E le posizioni da sempre assunte dai vari sindacati di polizia, le improponibili giustificazioni da sempre portate per respingere quella che giustamente la Pini definisce una “norma di civiltà” non fanno altro che aumentare i sospetti.
“Viene da chiedersi come si possa calpestare in maniera così brutale e arrogante il senso del dovere e di responsabilità che ancora porta migliaia di operatore pere strada” protesta Walter Mazzetti, segretario generale Fsp Polizia di Stato che, in realtà, ha sbagliato interrogativo. Perché, a proposito di senso del dovere, dovrebbe piuttosto chiedersi come si possano brutalmente manganellare, prendere a calci e calpestare inermi ragazzini e ragazzine. “E’ scandaloso, prima di parlare di codici alfanumerici per gli agenti si pensi agli identificativi per i delinquenti” aggiunge in maniera disgustosamente demagogica il sindacalista.
“Gli identificativi possono portare a far si che gli operatori siano sottoposti a lunghi procedimenti penali, con tutta una serie di ripercussioni sulla carriera, il servizio e la famiglia, anche di carattere economico” sostiene il segretario del Sindacato autonomo di polizia (Sap) Stefano Paoloni. In effetti come si può pensare che si “macchia” di certi comportamenti, indossando una divisa, ne debba rispondere in qualche modo. Chissà, magari quegli impavidi agenti che a Milano hanno manganellato violentemente un inerme ragazzino steso a terra con la testa già sanguinante e una sua giovanissima amica che cercava disperatamente di aiutarlo a rialzarsi meritano un solenne encomio, una medagli al valore…
Ironia (amarissima) a parte le parole di Paoloni sono la più evidente conferma di quale sia il nocciolo del problema, il pretendere una sorta di impunità di chi si macchia di certi comportamenti solo perché indossa una divisa. Per questo bisogna smetterla di fingere che si tratta di un problema circoscritto e, come più volte denunciato da Ilaria Cucchi, è ridicolo continuare a parlare di “poche mele marce”. “Il problema è nel sistema – afferma la sorella del povero Stefano – troppo spesso non vengono prese delle posizioni chiare e nette”.
Di fronte al ripetersi così frequente di certi episodi, di fronte alle crudissime immagini dei giorni scorsi, è ridicolo continuare a parlare di “poche mele marce” e rifugiarsi dietro le giustificazioni del caso per non ammettere invece che da un lato è un evidente problema di sistema, dall’altro c’è l’urgente necessità di essere più intransigenti, di non consentire più che chi si macchia di certi comportamenti violenti e indecorosi possa passarla liscia solo perché non si può identificare. A tal proposito non ci stancheremo mai di ricordare quanto accaduto dopo gli indegni fatti del G8 di Genova, un’infamia e una vergogna che hanno marchiato il nostro paese, umiliandolo e squalificandolo agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. E proprio il post G8 è la dimostrazione di quel problema di sistema e di quella inaccettabile volontà di impunità.
Perché la maggior parte di quelli che si sono macchiati di quelle vergognose violenze l’hanno passato liscia proprio perché non potevano essere identificati, mentre gli alti dirigenti coinvolti e protagonisti di quella indecenza, invece di essere cacciati “a calci nel sedere” e con sommo disonore, nella maggior parte dei casi hanno addirittura fatto carriera. Nessuno, tanto meno chi scrive, vuole con questo mettere sotto accusa indistintamente tutte le forze dell’ordine o mettere in discussione il rispetto che è dovuto nei confronti di chi mette a rischio la propria vita per assicurare la sicurezza di tutti i cittadini.
Ma ora più che mai, a maggior ragione dopo le violenze gratuite di Milano, Torino, Roma e Napoli contro ragazzini e ragazzine, c’è bisogno di uno scatto in avanti da parte degli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine. Che dovrebbero essere i primi ad essere favorevoli ad un provvedimento (i codici identificativi) che serve esattamente a tutelare la parte sana e ad identificare e allontanare le cosiddette “mele marce”. Nel Parlamento italiano dal 2018 giacciono in Commissione affari costituzionali due proposte di legge in questa direzione, quella citata della Pini ma anche quella del deputato di +Europa Riccardo Magi.
Per altro è opportuno ricordare che Unione europea e Onu si sono più volte pronunciati e hanno più volte chiesto agli stati membri di “garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”. E non certo da poco tempo, visto che la risoluzione approvata dal Parlamento europeo che chiedeva un simile impegno a tutti gli stati membri risale addirittura al 2021, mentre nel 2016 si è espresso nella stessa direzione il Consiglio sui diritti umani dell’Onu.
Ancora più significativo, però, è il fatto che 21 dei 28 stati membri dell’Unione europea hanno adottato gli identificativi. A loro vanno poi aggiunte la Germania, in cui la normativa sugli identificativi c’è in 9 delle 16 regioni, ed Ungheria e Svezia dove gli agenti di polizia espongono nome, carta d’identità e grado sull’uniforme ed un codice quando indossano equipaggiamento speciale. Solo Austria, Cipro e Lussemburgo fanno compagnia all’Italia.
“Il rischio – conclude la Pini – è che un’altra generazione cresca coltivando la sfiducia delle istituzioni”. E soprattutto, aggiungiamo noi, nei confronti delle forze dell’ordine.