Giusto condannare l’imbrattamento della statua di Montanelli, inaccettabile cercare di rimuovere o sminuire la grave colpa del giornalista toscano, accusato di pedofilia e di aver violentato una bambina di 12 anni durante la guerra d’Etiopia
Fiumi di parole da una parte, poche righe dall’altra. Un vero e proprio festival dell’ipocrisia e dell’incoerenza, con l’aggiunta di imbarazzanti e imbarazzate omissioni, falsità ed indecenti slogan in un caso, profonda e tagliente ironia nell’altro. Volendo semplificare, nel giro di poche ore due inaccettabili episodi di vandalismo, in un certo senso simili, hanno colpito il nostro paese. Stiamo parlando dell’imbrattamento (con la vernice rossa) della statua di Montanelli a Milano e della scritta apparsa ad Ascoli in via Napoli contro l’Associazione nazionale partigiani italiani. In un paese “normale” quest’ultimo episodio avrebbe avuto molto più risalto.
Nell’Italia in cui la memoria storica è stata praticamente cancellata, capita invece che da ore giornali, giornalisti e politici dedicano fiumi e fiumi di parole, spesso a sproposito, alla vicenda della statua di Montanelli. Un bruttissimo e un grave gesto quello rivendicato dalla Rete Studenti Milano e dal LuMe (Laboratorio universitario Metropolitano) che va condannato senza se e senza ma.
Però per certi versi è addirittura peggiore la reazione e il dibattito ipocrita e completamente mistificatorio che si è conseguentemente sviluppato sulla figura del giornalista toscano. Chi ama profondamente questo mestiere non può che avere profonda ammirazione per il Montanelli giornalista, a prescindere dalle sue opinioni e dalle sue posizioni, e non può non considerarlo un punto di riferimento. Giustamente molto critico nei confronti del giornalismo italiano, parafrasando la definizione anglosassone di “watchdog journalism” (giornalismo come cane da guardia del potere), sosteneva che nel nostro paese troppo spesso il giornalismo in realtà è il cane da compagnia o da riporto del potere.
Lui, invece, non lo è mai stato, come ad esempio ha dimostrato quando ha abbandonato la direzione de “Il Giornale”. Proprio ai giardini pubblici dove poi è stata posta la sua statua, il 2 giugno 1977 Montanelli venne “gambizzato” da un commando delle Brigate Rosse composto da tre terroristi, Calogero Diana, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. A questi ultimi due, nel 1987 a terrorismo ormai sconfitto, nel corso di un incontro presso il Circolo della stampa il giornalista toscano strinse la mano. Giusto sottolineare la grandezza del giornalista ma altrettanto inevitabile sarebbe sottolineare con correttezza la gravissima e indelebile macchia che resta nella vita di Montanelli.
La controversia che lo riguarda (e che è al centro della richiesta di rimozione della statua presentata dal gruppo “I Sentinelli” di Milano) è quella relativa alla moglie bambina quando il giornalista, allora 25enne, era ufficiale durante la guerra d’Etiopia. Il “madamato”, ovvero la convivenza more uxorio con una donna (spesso una bambina) comprata nelle colonie italiane in Africa, era una consuetudine all’epoca (fu proibita solo dal 1937 perché comprometteva la purezza della razza italiana). Una pratica alla quale non si sottrasse lo stesso Montanelli che comprò per 350 lire una bambina di 12 anni. Il racconto, scritto dallo stesso Montanelli su “Il Corriere della sera”, è semplicemente agghiacciante.
“Avevo bisogno di una donna – scrive – a quell’età si capisce. Lei era un animalino docile, quando me ne andai la cedetti al generale Biroli, un vecchio coloniale che era abituato ad avere il suo piccolo harem, a differenza di me che ero monogamo perché non potevo consentirmi grandi lussi. All’inizio faticai molto a superare il suo odore dovuto al sego di capra di cui erano intrisi i suoi capelli e ancor più a stabilite con lei un rapporto sessuale perché era fin dalla nascita infibulata: il che, oltre a opporre ai miei desideri una barriera pressochè insormontabile, la rendeva del tutto insensibile. Ci volle, per demolirla, il brutale intervento della madre”.
Il giornalista toscano non si è mai pentito di questo orribile comportamento e si è sempre giustificato sostenendo che a 12 anni le bambine africane erano consapevoli di quello che facevano. Detto che, in realtà, all’epoca la pedofilia era un reato vietato dal Regio decreto 740/37 e che il sesso con una minore era considerato violenza carnale (art. 519 del Codice Rocco), l’improbabile giustificazione di Montanelli è stata inesorabilmente demolita nel 1969 da Elvira Banotti, nata e cresciuta ad Asmara ma di famiglia italiana, in una puntata del programma televisivo di Gianni Bisiach “L’ora della verità”.
Ancora una volta, raccontando quell’episodio (con il sorriso sulla bocca), Montanelli aveva ripetuto la sua tesi giustificatoria. La Banotti lo attaccò, mettendolo in evidente imbarazzo, accusandolo senza mezzi termini di violenza carnale: “Io ho vissuto in Africa, il vostro era il rapporto violento di un colonialista che si impossessa della ragazza di 12 anni. I militari hanno fatto le stesse cose ovunque sono stati vincitori. La Storia è piena di questa situazioni”.
Come già sottolineato, tutto ciò non giustifica l’atto vandalico di Milano né, almeno per quanto ci riguarda, è in discussione l’eventuale necessità di rimuovere la statua. Semplicemente è inaccettabile l’ignobile tentativo di rimozione della verità dei fatti che sta mettendo in atto chi condanna quel gesto.
Quel “nessuno tocchi Montanelli”, lanciato da Servegnini e condiviso da tantissimi giornalisti e personaggi politici (di destra e di sinistra), le accuse rivolte dalla Meloni a chi osa ricordare determinati fatti (“talebani” “analfabeti radical chic”) sono francamente inaccettabili e nascondono l’evidente difficoltà di chi non sa a cosa aggrapparsi per celare la realtà. Che è quella brutalmente evidenziata dal corrispondente dall’Italia per la tv tedesca Ntv Udo Gampel: “Montanelli ha violentato una bambina”. E secondo la legge che era in vigore allora (e ancor più oggi) era un pedofilo. Si possono accampare tutte le giustificazioni del mondo, si può etichettare nel peggiore dei modi chi lo sottolinea, ma la realtà resta chiara e indiscutibile: Montanelli è stato sicuramente un grandissimo giornalista, forse il più grande della storia italiana.
Ma al tempo stesso è stato un pedofilo e di fatto ha violentato una bambina. Tutto ciò non giustifica quanto accaduto a Milano, ma non si può continuare a negare la realtà e, tanto meno sono accettabili certe reazioni da oscar dell’ipocrisia. Come, ad esempio, quella di “Libero Quotidano” che, nella stessa edizione, critica pesantemente la decisione dell’Università Cattolica, che ha scelto Tiziano Ferro come testimonial, per il semplice fatto che il cantante abruzzese è dichiaratamente gay, mentre difende “a spada tratta” la memoria di Montanelli considerando quella vicenda un particolare insignificante.
Addirittura peggio ha fatto “Il Giornale” che, in un fondo firmato da Mario Furlan, per smontare l’accusa di “pedofilo e razzista” non si fa scrupoli di distorcere completamente i fatti, omettendo addirittura il fatto che la bambina avesse solo 12 anni. “Si vollero bene. Ma per fortuna Montanelli capì che quel legame era sbagliato (mai ammesso, neppure dopo, dal giornalista toscano…). Eccola qui la grande colpa del grande scrittore. Ecco perché era razzista: perché si era messo insieme ad una ragazza di colore (magari l’aveva comprata e non era una ragazza ma una bambina di 12 anni…), dovrebbe semmai essere il contrario: un bianco che va con una nera dimostra che il colore della pelle non conta. Ed ecco perché era pedofilo: perché lei non era ancora maggiorenne (12 anni…)”. Non abbiamo dubbi che, se fosse ancora vivo, lo stesso Montanelli “schiferebbe” questi pseudo giornalisti.
Intanto, mentre andava in scena questo penoso festival dell’ipocrisia e dell’incoerenza, è passato quasi sotto silenzio l’ennesimo vigliacco attacco contro l’Anpi, per altro avvenuto proprio nel nostro capoluogo. “Anpi cancro” è la scritta apparsa nei pressi della Chiesa dei Frati in via Napoli. Ed a proposito di ipocrisia ed incoerenza, è emblematico il fatto che diversi esponenti politici locali, che non hanno perso tempo per esprimere il proprio disappunto per l’atto vandalico a Milano, non si sono invece sentiti in dovere di spendere neppure una parola per quello avvenuto nel capoluogo piceno.
Nel vergognoso silenzio delle istituzioni locali, l’unica voce che si è fatta sentire è proprio quella dell’Anpi di Ascoli. Che, invece di spendere fiumi di inutili parole, ha liquidato l’ultima “eroica impresa dei fascitelli locali”, con la necessaria ironia: “Essendo ignoranti da generazioni, non sanno i meschini che l’Anpi è stata fondata il 6 giugno 1944. Ne deriva che la scritta corretta sarebbe stata: Anpi Gemelli!”.
Poche parole per rimarcare la differenza abissale che esiste tra quei due mondi…