Da papa Francesco ai parroci: dopo la “sbandata” dei vescovi, il riscatto della Chiesa
Il papa “mette in riga” la Cei e la costringe ad una penosa retromarcia, ribadendo la necessità “dell’obbedienza alle disposizioni”. E mentre per il vescovo di Ascoli D’Ercole “la chiesa non è luogo di contagio”, la comunità religiosa piange fino ad ora la morte di oltre 50 parroci
Non che ce ne fosse bisogno, ma mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, è la più evidente dimostrazione di come il vescovo di Ascoli, mons. D’Ercole, farebbe meglio ad evitare di dire corbellerie come quella secondo cui la chiesa non è luogo di contagi. Dal letto dell’ospedale dove ancora si trova, fortunatamente in condizioni in progressivo miglioramento, nelle ore scorse ha lanciato un appello: “ai vescovi suggerisco prudenza. Non sapete fino in fondo cosa sia questa malattia. Non è finita ancora, non forzate la mano”. Mons Olivero il 19 marzo era stato ricoverato all’ospedale Agnelli di Pinerolo, dopo aver contratto il coronavirus, con gravi difficoltà respiratorie.
E’ rimasto intubato per moltissimi giorni ed addirittura il venerdì di Pasqua ha subito una tracheotomia. E, tutto sommato, gli è andata bene, perché altri parroci non hanno avuto la stessa fortuna. Nei giorni scorsi, ad esempio, a Novara sono deceduti proprio a causa del coronavirus 2 preti, uno dei quali di 47 anni. Prima di quei decessi il giornale “Avvenire” aveva stimato che i preti morti per il coronavirus (a fine marzo) fossero più di 50. Per non parlare, poi, delle cronache di questi 50 giorni da tutto il mondo che raccontano di contagi di massa avvenuti nel corso di varie cerimonie religiose.
Addirittura il 23 marzo scorso papa Francesco aveva deciso di dedicare la messa celebrata a Santa Marta (in diretta streaming e senza fedeli) proprio ai tanti parroci defunti per il coronavirus, oltre che a medici ed infermieri. E’ già abbastanza paradossale che in un paese civile ci sia la necessità di ricordare questi semplici e scontati dati di fronte alle farneticazioni del vescovo di Ascoli. Ma, a maggior ragione sulla base di questi dati inconfutabili, mons. D’Ercole dovrebbe vergognarsi e chiedere scusa per quelle indecenti affermazioni (“la chiesa non è luogo di contagio”) che, oltre ad essere completamente e totalmente fuori luogo, sono offensive e una grave mancanza di rispetto proprio nei confronti di tutti quei parroci che hanno perso la vita.
E’ da sottoscrivere in pieno e prendere come esempio la durissima lettera che il cardiologo dell’ospedale San Filippo Neri di Roma, dottor Chiristian Pristipino, “da cittadino, medico ospedaliero, impegnato nella lotta al Covid, ricercatore scientifico, fondatore e membro di società scientifiche nazionali e internazionali e credente cattolico” ha indirizzato proprio al vescovo di Ascoli e alla Conferenza episcopale italiana (Cei).
“Non faccio insulto alla sua intelligenza – scrive – nello spiegarle che la Sua rispettabile esperienza di Pastore non le consente di tare alcuna conclusione attendibile su quello che sia o non sia sicuro fare dal punto di vista medico, epidemiologico e di salute pubblica. Il solo pensiero che un vescovo possa deliberatamente essere all’origine di un danno alla salute dei suoi fedeli, per qualunque motivo lo faccia, è semplicemente ripugnante oltre a essere un insulto per chi, come noi medici, lotta ogni giorno a rischio della propria vita per curare i danni causati da interventi inopportuni come il Suo.
In questa chiave non stupisce lo stile autoreferenziale, enfatico e arrogante, strumentale al ricoprire le motivazioni inconsistenti su cui ha basato il Suo argomentare. Da credente mi limito a interrogarmi se questo stile, associato alla pretesa di diritti inesistenti, sia coerente con il messaggio che la Chiesa è tenuta a proclamare e incarnare”.
Non da meno dovrebbe vergognarsi la Cei per l’indecente comunicato stampa, diffuso poche ore dopo la conferenza stampa del premier Conte di domenica sera, che per diverse ore ha riportato la Chiesa ai tempi più bui e più oscuri della sua lunga storia. Un documento fuori luogo e del tutto inopportuno, di una violenza verbale inaccettabile, in alcuni passi ai limiti dell’arroganza.
Per altro i vescovi italiani non vivono su Marte, conoscono perfettamente la realtà del nostro paese, il difficile travaglio che sta vivendo non solo per l’epidemia da coronavirus (che, dovrebbero ricordarlo alla Cei, ha fino ad ora mietuto 27 mila vittime), ma anche per le sempre più violenti lacerazioni che certi irresponsabili comportamenti stanno provocando. Ed in questo caso, purtroppo, la Cei ha superato, quanto ad irresponsabilità, i peggiori provocatori che circolano sulla scena politica italiana. Non che abbiano un qualche fondamento le loro rimostranze, ma se anche ce l’avessero ci sono modi e toni per avanzarle.
Soprattutto, però, quei richiami all’autonomia della Chiesa e ad un’ipotetica compromissione dell’esercizio della libertà di culto, solo perché il governo avrebbe avuto l’ardire di imporgli le restrizioni che devono sopportare tutti “comuni mortali”, sulla base di precise indicazioni di carattere tecnico scientifico, rappresentano uno dei punti più bassi toccati dalla Cei negli ultimi anni.
“Alla Presidenza del Consiglio e al Comitato tecnico-scientifico – si legge nel comunicato– si richiama il dovere di distinguere tra la loro responsabilità, dare indicazioni precise di carattere sanitario, e quella della Chiesa, chiamata ad organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia. I Vescovi italiani non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”.
Per decenza sorvoliamo sul “significativo” impegno verso i poveri della Cei in questa emergenza. E’, invece, impossibile sorvolare di fronte ad un’affermazione semplicemente ridicola e gravemente strumentale come quella che vorrebbe in discussione addirittura la libertà di culto. “La nostra fede non andrà in crisi perché non abbiamo messe, se la perdessimo vuol dire che non l’abbiamo mai avuta” replica il reverendo Rocco D’Ambrosio, professore ordinario di Filosofia Politca all’Università Gregoriana.
“La Chiesa non ha uno statuto privilegiato nello stato democratico che le dia il diritto di sottrarsi alle norme del vivere civile. Soprattutto come oggi in mezzo alla pandemia” aggiunge don Giovanni Ferretti, filosofo e teologo, rettore della real Casa di San Lorenzo di Torino.
“Ai vescovi non farebbe male una passeggiata nelle corsie per vedere le persone intubate – afferma padre Alberto Maggi, biblista e direttore del Centro studi biblici di Montefano (Macerata) – non bisogna considerarli tanto perché vivono in un’altra epoca e in un altro mondo. Hanno pratica delle chiese e della gente? Premesso che l’eucarastia è il momento più importante e indispensabile per la comunità dei credenti, adesso non ci sono le condizioni per celebrarla”.
Come loro tantissimi altri parroci e vescovi, a dimostrazione che la Chiesa fortunatamente può essere molto migliore di quella modello Stato Pontificio alla quale si ispirano il vescovo di Ascoli e la Cei. Che, per altro, è stata “bastonata” e zittita da un sempre più ammirevole papa Francesco che, con un paio di semplici frasi, ha chiuso ogni discorso.
“In questo tempo, nel quale si incomincia ad avere disposizioni per uscire dalla quarantena, preghiamo il Signore perché dia al suo popolo, a tutti noi, la grazia della prudenza e dell’obbedienza alle disposizioni perché la pandemia non torni” ha affermato il pontefice. “La Chiesa italiana non ha alcuna volontà di strappare col governo né di fare fughe in avanti. L’intenzione è quella di andare avanti con il dialogo costruttivo” ha poco dopo aggiunto il portavoce della Cei, don Ivan Maffeis.
Chi non ha fatto e, non abbiamo dubbi, non farà alcuna marcia indietro è il vescovo di Ascoli. Che a questo punto, visto la distanza che lo separa dal papa e da gran parte del mondo cattolico, potrebbe pensare ad uno scisma. Di sicuro non sarebbe una grave perdita per la Chiesa (e tanto meno per la comunità ascolana) …