L’emergenza coronavirus ha smascherato le pecche della sanità italiana che paga le politiche di “razionalizzazione” degli ultimi governi (di centrodestra e di centrosinistra) ma anche i troppi fondi pubblici destinati ai privati e la “regionalizzazione” della sanità stessa
Come è normale che fosse, da quando è iniziata nel nostro paese l’emergenza coronavirus l’attenzione di tutti è ovviamente rivolta allo stato di salute del nostro sistema sanitario. Si discute (solo ora, però…) di tagli (o presunti tali) sia alle risorse che ai posti letto. Purtroppo come al solito il tutto viene fatto non allo scopo di cercare di capire (ed eventualmente poi non ricommettere gli stessi errori) ma semplicemente per strumentalizzare ai fini politici. Invece servirebbe una seria riflessione per fare in modo che, dal momento in cui si uscirà da questa emergenza, ci si adoperi concretamente per rafforzare e migliorare il nostro sistema sanitario.
Che, necessariamente, vuol dire aumentare gli stanziamenti per la sanità, aumentare la dotazione di posti letto in senso generale e particolare e, ancor più, il personale medico ed ospedaliero. Sembra scontato, ancor più in questo momento, invece è bene ribadirlo perché molti di quelli (parliamo ovviamente di esponenti politici) che oggi invocano maggiori risorse e maggior personale sanitario fino a poco fa sostenevano il contrario, cioè che la sanità italiana si poteva migliorare razionalizzando (che il termine più carino per definire i tagli).
Senza entrare nel dettaglio (per evitare polemiche inutili in questa fase), è giusto però ricordare che alcuni degli esponenti politici locali che da qualche giorno sui social inveiscono contro i tagli alla sanità, qualche tempo fa, nel corso di un convegno ad Ascoli proprio sulla sanità, elogiavano la “razionalizzazione” effettuata qualche anno prima che aveva ridotto personale e posti letto superflui, senza però intaccare la qualità del servizio sanitario. Tornando al presente e ai presunti tagli operati negli ultimi anni, in questi giorni abbiamo assistito ad una penosa gara a chi “la sparava più grossa”.
La cifra più volte ripetuta e più comunemente utilizzata per confermare i tagli è di 37 miliardi ma c’è chi si è spinto oltre arrivano fin quasi a 100 miliardi. La realtà, però, è decisamente più complessa. Perché a livello strettamente numerico complessivamente non ci sono stati tagli alle risorse, anzi un aumento quantificabile negli ultimi 15 anni in quasi 50 miliardi, visto che il finanziamento del Servizio sanitario nazionale a carico dello Stato è passato dai 71 agli attuali 118 miliardi di euro. Va, però, considerato che, se si prende in esame la percentuale di risorse pubbliche, rispetto al prodotto interno lordo (pil), destinate dalla sanità il discorso cambia, così come se si analizzano gli aumenti reali rispetto agli aumenti programmati negli ultimi 10 anni.
Questi ultimi, infatti, risultano decisamente minori rispetto a quanto era stato previsto nelle manovre approvate dai vari governi. Non è facile, però, quantificare esattamente quanti miliardi teoricamente programmati non sono poi stati destinati. Secondo uno studio pubblicato a settembre dalla Fondazione Gimbe negli ultimi 10 anni i mancati aumenti al Servizio sanitario nazionale hanno un valore di circa 37 miliardi. Va sottolineato, per dovere di cronaca, che lo stesso Gimbe ha evidenziato come sui (presunti) 37 miliardi di mancati investimenti hanno inciso in maniera molto accentuata i governi Berlusconi e Monti.
La conseguenza fondamentale di questi mancati stanziamenti è la diminuzione della percentuale, rispetto al pil, di risorse pubbliche destinate alla sanità che, secondo l’ultima rilevazione, scende al 6,5%, in linea con la media Ocse (6,6%) ma inferiore rispetto ai più grandi paesi europei: Germania 9,5%, Francia 9,3% e Regno Unito 7,5%. Nel 2008, al momento dell’insediamento dell’ultimo governo Berlusconi la percentuale di fondi per la sanità pubblica rispetto al pil era al massimo mai raggiunto, intorno al 7%. Da quel momento è iniziata una lenta diminuzione che è stata determinata dalle scelte di quel governo e di tutti quelli successivi (governo Monti, governo Letta-Renzi, governo Conte I).
Non ci sono dubbi, invece, sul fatto che negli ultimi 10 anni c’è stata una decisa contrazione del personale dipendente sanitario (medici, infermieri e operatori sanitari), così come non ce ne sono riguardo il fatto che sono stati tagliati posti letto (e ospedali). Quanto al personale sanitario anche in questo caso di numeri ne abbiamo sentiti e letti tantissimi in questi giorni, il dato più accreditato e ritenuto credibile negli ambienti sanitari è quello di uno studio pubblicato nel settembre 2019 dall’Associazione nazionale aiuti assistenti ospedalieri (Anaao Assomed) che, sulla base dei dati del Conto annuale del tesoro (Cat), evidenzia una carenza di circa 8 mila medici, 2 mila dirigenti sanitari e 36 mila infermieri.
Se possibile ancora peggiore la situazione per quanto riguarda i posti letto negli ospedali italiani, secondo l’ultima rilevazione ufficiale (Ministero della Salute) poco meno di 200 mila (192.104 per la precisione), con 518 strutture di ricovero pubbliche (151.646 posti letto) e 482 private accreditate (40.458 posti letto). I dati più significativi ed eloquenti, però, sono quelli che ci fornisce Eurostat secondo cui negli ultimi 15 anni il numero di posti letto pro capite è calato di circa il 30%, attestandosi sulla media di 3,2 posti letto ogni 1.000 abitanti, bene al di sotto della media dell’Unione europea che è vicina al 5 ogni 1.000 abitanti.
L’idea della “razionalizzazione” dei posti letto (con anche la conseguente chiusure di decine e decine di ospedali su tutto il territorio nazionale) che però non influisce, anzi per qualche strano motivo migliorerebbe, sulla qualità della sanità nazionale è stata lanciata dal governo Berlusconi e dalle amministrazioni di centrodestra. Basterebbe ricordare il devastante piano di tagli ad ospedali e posti letto partorito nel Lazio da Renata Polverini (e che oggi, come avviene troppo spesso nel nostro paese, viene erroneamente attribuito a Zingaretti).
Ma non minore è la responsabilità dei governi di centrosinistra che si sono succeduti che non sono stati capaci (o non hanno avuto la forza) di cambiare rotta, di sostenere con forza che i tagli si possono operare su tutto ma non sulla sanità. Oggi, in questo momento di estrema e imprevedibile emergenza, si vedono gli effetti di queste politiche. Così come si vedono le conseguenze di altri due aspetti su cui, passato il peggio, bisognerà inevitabilmente riflettere.
Parliamo in particolare dei troppi soldi pubblici finiti alla sanità privata e del fatto che la gestione della sanità stessa non è centralizzata ma è in mano alle Regioni. Degli oltre 110 miliardi con cui il governo finanzia annualmente la sanità, non meno di 40 finiscono alla sanità privata. Che, come abbiamo visto, non li utilizza certo per mettere a disposizione dei cittadini più posti letto (sono 40.458 per 482 strutture private accreditate). Proprio la Lombardia è la regione che più “foraggia” i privati, ben 538 dei 1.931 euro pro capite, pari quasi al 30% (nelle Marche siamo all’11%), poco meno di 6 miliardi all’anno.
Nel febbraio 2018 Milena Gabanelli ha pubblicato (sul “Corriere della Sera”) un’approfondita indagine giornalistica proprio sui fondi pubblici alla sanità privata, incentrata soprattutto sullo scandalo dei rimborsi “gonfiati” (i rimborsi sulla diagnostica per le strutture private convenzionate). “Per una struttura sanitaria incassare una convenzione equivale a garantirsi una gallina dalle uova d’oro” scrive la Gabanelli evidenziando come in certe regioni (in particolare Lombardia, Veneto e Liguria) gli esami vengono rimborsati fino a tre volte il loro costo.
Una fortuna per le strutture private che ne usufruiscono, una sciagura per il nostro sistema sanitario che, solamente in questo modo, vede svanire nel nulla ogni anno miliardi che potrebbero invece essere utilizzati in ben altro modo. Bisognerà necessariamente riflettere su questi dati al termine dell’emergenza, così come bisognerà farlo sul fatto che la gestione della sanità non sia centralizzata. Si potrebbe parlare a lungo delle conseguenze di tutto ciò, è sufficiente in questo caso sottolineare quanto sta accadendo con le mascherine, un problema non di poco conto in questa situazione e che per certi versi è determinato proprio dal fatto che ogni Regione si muove autonomamente.
Nel caso della Lombardia, poi, la confusione è accentuata dal fatto che la Regione non ha mai predisposto un Piano Emergenze che stabilisse in modo chiaro a chi spettasse l’acquisto di presidi medici come mascherini, guanti e occhiali protettivi. Quindi ogni singola amministrazione ha sempre agito per conto suo. Poi, quando all’orizzonte di profilava l’emergenza coronavirus, la stessa Regione a metà febbraio ha bloccato tutti i singoli ordini di presidi medici inviati in precedenza dalle sue propaggini amministrative, centralizzando gli acquisti nell’Azienda regionale per l’innovazione e gli acquisti (Aria Spa).
Una procedura che ha ritardato un approvvigionamento già difficoltoso e reso ancor più tale dalla confusione generata dall’azienda stessa, assolutamente impreparata a gestire una situazione del genere. Sarà fondamentale ricordarsi di tutto ciò quando l’emergenza sarà alle spalle e dovremo dimostrare di aver imparato la lezione…