Nella QS World University Rankings, la più autorevole classifica mondiale delle università di tutto il mondo, per trovare il primo ateneo italiano (Politecnico di Milano) bisogna scendere al 149° posto. Nelle prime 100 posizioni rappresentate 21 nazioni
Bisogna scendere giù, fino al 149° posto, per trovare la prima università italiana, il Politecnico di Milano, nel Qs World University Rankings, la più consultata e autorevole classifica mondiale delle università di tutto il mondo. La graduatoria, giunta alla sedicesima edizione e pubblicata mercoledì 19 giugno dagli analisti di QS, incorona per l’ottavo anno consecutivo il Mit di Boston come migliore università al mondo.
Tutto il podio è occupato da università a stelle e strisce, con Stafford in seconda posizione e Harvard in terza. Al quarto posto la prima università non americana, quella inglese di Oxford. Stati Uniti e Gran Bretagna si dividono le prime 10 posizioni, con 5 università americane e 4 del Regno Unito. Unica eccezione l’Eth di Zurigo che si colloca in sesta posizione. Come detto per trovare un po’ d’Italia bisogna scendere ben oltre il centesimo posto, mentre tra le prime 200 ci sono anche la Sant’Anna di Pisa e l’Università di Bologna (entrambe al 177° posto).
Nel panorama universitario mondiale l’Italia non solo non è tra le eccellenze ma, addirittura, è ampiamente nelle retrovie. Un dato su tutti per comprendere meglio la situazione. Nelle prime 100 posizioni sono rappresentate (con due o più università) ben 21 paesi al mondo. Oltre a Stati Uniti e Gran Bretagna ci sono Svizzera, Belgio, Australia, Svezia, Russia, Nuova Zelanda, Singapore, Cina, Canada, Hong Kong, Giappone, Sud Corea, Argentina, Olanda, Francia, Germania, Danimarca, Taiwan, Malesia. Non solo, tra le prime 300 università del mondo ce ne sono solo 6 italiane (oltre le tre già citate la Sapienza di Roma, la Normale di Pisa, e l’Università di Padova), mentre complessivamente nella graduatoria (che comprende le prime 1000 università) entrano 34 atenei italiani, anche se quasi la metà di loro (15) sono nella fascia 801-1000.
La classifica si basa su una ricerca rigorosa che include le opinioni di 94.000 docenti, accademici e ricercatori e di 44.000 manager e direttori delle risorse umane. Comprende l’analisi di 11,8 milioni di pubblicazioni scientifiche e di 100 milioni di citazioni. Inoltre vengono presi in considerazione i dati sulla distribuzione di 23 milioni di studenti e di circa 2 milioni di docenti e ricercatori per compilare la classifica. In un contesto chiaramente desolante per il nostro paese, ci sono comunque alcune indicazioni positive.
Nell’indicatore che misura l’impatto della ricerca prodotta rispetto al numero di ricercatori, ad esempio, la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa si piazza al decimo posto, un risultato davvero eccezionale. Ottimo risultato anche per l’Università di Bologna nell’indicatore della reputazione accademica. Più in generale gli stessi esperti e analisti del settore sottolineano la qualità potenziale delle università italiane. Addirittura Ben Sowter, direttore della QS Intelligence Unit, sottolinea come “l’Italia possieda eccellenze universitarie straordinarie”. Ma, allora, come è possibile che sia così indietro nella graduatoria mondiale delle università?
La spiegazione è semplice, praticamente scontata e ampiamente nota. Lo stesso Sowter lo evidenzia con una sorta di appello. “Ci auguriamo che la classe dirigente italiana si decida ad intervenire per sostenere l’università e la ricerca con investimenti e politiche lungimiranti” afferma.
“Siamo consapevoli che i prossimi risultati dipenderanno sicuramente dalla nostra capacità di attrarre docenti qualificati anche dall’estero ma anche e soprattutto dalla volontà del Paese di mettere in atto politiche universitarie e investimenti adeguati” aggiunge il rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta. Il vero punto debole, il grosso problema dell’università italiana è la politica, la mancanza di politiche adeguate di sviluppo e di sostegno e, soprattutto, l’assoluta esiguità degli investimenti.
Del resto non è certo una novità, l’Italia investe pochissimo nell’istruzione nel suo complesso, appena il 4% del Pil, tra i valori più bassi dell’Europa (che ha una media del 4,8% e punte intorno al 7% in Danimarca, Svezia, Belgio). Ma investe ancora meno nell’università e nei corsi post diploma, appena la 0,4% del Pil, in assoluto il valore più basso tra i 28 paesi dell’Unione europea.
E’ sempre stato così, se possibile la situazione con il nuovo governo è addirittura peggiorata. Il precedente governo, con il ministro Fedeli, lo scorso anno aveva tagliato 70 milioni di euro ai fondi per l’università, quello attuale ha operato un’ulteriore sforbiciata di 100 milioni di euro. Ma non si tratta solo di minori fondi (che già, per un paese che è ultimo in Europa per investimenti, è particolarmente significativo).
In un emblematico articolo di inizio gennaio (“Università depredata dalla Legge di Bilancio 2019”), Francesco Sylos Labini sottolinea come non si tratti solamente di una questione di fondi. “Per rilanciare l’università – scrive – c’è bisogno di una rivoluzione culturale che deve investire prima di tutto la società, facendo crescere una nuova consapevolezza dell’importanza di ricerca e cultura, contrastando tutte le sirene che invece invitano al disimpegno”.
“La realtà – prosegue Sylos Labini – è che la formazione universitaria è considerata dalla politica servire a ben poco, in generale e nel mercato del lavoro in particolare. Abbiamo il più basso tasso di laureati nella fascia d’età tra 24 e 35 anni eppure i nostri laureati non trovano un lavoro al livello del loro grado di istruzione”.
L’istruzione, ancor più quella universitaria, nel nostro paese non è considerata un valore. Basterebbe pensare agli ultimi ministri che si sono succeduti negli ultimi anni. Con Valeria Fedeli si pensava di aver toccato il fondo. Poi è arrivato Marco Bussetti e ci si è reso conti che davvero non c’è mai fine al peggio. Ad ulteriore conferma c’è quello che ha fatto il governo in questo settore nel corso del suo primo anno di vita.
Anzi, sarebbe più giusto dire che non ha fatto. “Pagella Politica”, in occasione del primo anno del governo Conte, ha realizzato “Traccia il Contratto” per verificare quanto fatto e quanti degli impegni e dei punti inseriti nel contratto sono stati realmente realizzati o quanto meno avviati. L’analisi ha riguardato ognuno dei 30 capitoli del contratto di governo firmato il 18 maggio 2018 e per quanto riguarda l’università il risultato è a dir poco desolante. Nessuno dei 10 punti sull’università inseriti nel contratto è stato realizzato, addirittura per 9 di loro “Pagella Politica” parla apertamente di “promessa non mantenuta”.
Tra questi, per altro, ci sono interventi importanti che erano stati più volte menzionati in campagna elettorale. Parliamo, ad esempio, della revisione del numero chiuso, della verifica dell’operato dei docenti, della nascita dell’Agenzia nazionale della Ricerca e, come detto, della promessa di stanziare più soldi per università e ricerca. L’unico punto su cui in concreto si è iniziato a fare qualcosa (“armonizzazione del sistema delle lauree professionalizzanti e degli Istituti tecnici superiori”) per altro ha visto solo l’adozione di un provvedimento generico, con un primo stanziamento in proposito di una ventina di milioni stabilito a luglio 2018 e confermato ad aprile 2019, che ancora deve avere reale e completa applicazione.
Cambiano i suonatori ma la musica resta sempre la stessa nel nostro paese. Almeno per quanto riguarda cultura e istruzione che, purtroppo, in questo paese continuano a non essere considerati dei valori fondamentali e prioritari.