Dopo le elezioni del 4 marzo 2018 doveva nascere la “terza repubblica”, quella dei cittadini e nella quale la casta non avrebbe più goduto di certi inaccettabili privilegi. Il voto per evitare il processo a Salvini, però, conferma che la casta è viva e vegeta e, anzi, è più forte di prima…
“Troppo comodo non farsi processare, lui può è della casta”. Qualcuno, dopo il 4 marzo scorso, si era forse illuso che da quel momento in poi non avremmo più dovuto ascoltare o leggere simili affermazioni. Quella sera, di fronte ai risultati delle elezioni politiche che sancivano il successo del Movimento 5 Stelle, il suo leader Luigi Di Maio aveva annunciato con enfasi “Oggi è nata la terza repubblica, quella dei cittadini” lasciando immaginare che da quel giorno sarebbe nato un nuovo paese, con i cittadini al centro dell’attenzione e i politici che sarebbero pian piano stati privati di tutti quegli odiosi privilegi e benefici che nei decenni hanno scavato un solco tra loro e i comuni cittadini stessi, al punto da farli diventare una vera e propria casta.
E non c’era neppure il bisogno di spiegarlo che il primo e più importante privilegio da eliminare fosse proprio quello che ha sempre consentito a parlamentari e membri del governo di godere di un trattamento assolutamente differente di fronte alla legge. Quel manifesto con cui è stato accolto a Bari il ministro degli interni Matteo Salvini, nel giorno in cui la giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato ha detto al no al processo nei suoi confronti per la vicenda della Diciotti, dimostra come nella realtà la terza repubblica non si discosta per nulla dalla seconda e dalla prima, almeno sotto questo punto di vista.
La casta è più viva e più solida che mai, anzi per certi versi è addirittura più forte di prima. E i fortunati che ne fanno parte (politici, soprattutto della maggioranza) continuano a godere di inaccettabili privilegi, compreso quello di essere dei veri e propri “intoccabili”, di non essere sottoposti alla legge come qualsiasi altro cittadino, almeno senza l’autorizzazione della casta stessa. “Ci si difende nei processi, non dai processi” ha sempre ripetuto in questi anni Di Maio ogni volta che la casta, con il proprio voto in Parlamento, salvava qualche parlamentare, negando l’autorizzazione a procedere.
D’altra parte da sempre quello è stato, dall’origine stessa del Movimento, uno dei principali capisaldi del M5S, l’idea (impossibile da non condividere) che non è accettabile un trattamento differenziato e privilegiato per i politici di fronte alla legge, che non possa esistere alcun tipo di motivazione che possa giustificare una simile disparità di trattamento.
Per questo anche chi non si era certo illuso che la casta e i suoi privilegi sarebbero effettivamente scomparsi nella terza repubblica, quella sera ha creduto che almeno da questo punto di vista qualcosa sarebbe effettivamente cambiato. Va, per altro sottolineato, il “difendersi nei processi e non dai processi” non era certo un concetto nuovo. Magari espresso con altri termini ma lo avevamo sentito ripetere per anni anche dalla sinistra nel periodo dell’epopea berlusconiana, quando il “cavaliere” e diversi esponenti a lui vicini finivano coinvolti in inchieste giudiziarie e venivano salvati o da leggi ad hoc o dallo scudo dell’immunità.
Poi però, quando è arrivata al governo e ha avuto la maggioranza, la stessa sinistra non si è fatta scrupolo di salvare diversi propri esponenti dal rischio di finire a processo (anche se, per onor di cronaca, bisogna ricordare che qualche parlamentare e qualche ministro di quella parte politica si è dimesso, permettendo così alla giustizia di compiere il proprio corso, prima ancora che il Parlamento potesse esprimersi). Scenario che si è puntualmente ripetuto ora, con, alla prima occasione utile, la conferma che nella terza repubblica, come nella seconda e nella prima, gli appartenenti alla casta restano intoccabili, almeno da questo punto di vista.
Tutto come sempre, tutto come prima, anzi per certi versi peggio di prima. Politici (soprattutto quelli che sono al potere) e cittadini continuano a viaggiare su due piani paralleli e assolutamente distanti. E proprio i fatti di questi giorni lo dimostrano in maniera inequivocabile.
Qualche giorno fa, ad esempio, un giornalista (Davide Falcioni, a cui non possiamo che ribadire tutta la nostra stima e la nostra solidarietà, per quanto può contare…) non solo è finito a processo ma, addirittura, è stato condannato (una vergogna per un paese civile…) semplicemente per aver fatto quello che ogni giornalista dovrebbe fare, verificare direttamente e poi raccontare i fatti. E’ stato processato e condannato semplicemente per aver svolto il proprio mestiere.
Di contro ora la giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato decide di non mandare Salvini a processo perché considera il reato che gli viene contestato “un atto compiuto per portare avanti il programma di governo”, quindi in un certo senso nello svolgimento del proprio compito istituzionale.
Al netto delle considerazioni sulla fondatezza dei singoli reati contestati al giornalista e al ministro, ne consegue con tutta evidenza che da una parte c’è chi (il ministro) può tranquillamente permettersi anche di compiere un eventuale reato nell’ambito della propria attività, tanto poi il Parlamento non consente che venga sottoposto a processo, mentre dall’altra c’è un semplice cittadino (il giornalista) che in un caso analogo non ha alcuna possibilità, non può appellarsi a nulla per evitare il processo.
A dir la verità c’è poco da stupirsi, al di là dei proclami sin dall’inizio si era ampiamente capito come stavano realmente le cose, dal momento della scelta del nuovo presidente del Senato (la seconda carica dello Stato), caduta sulla Casellati (votata dall’attuale maggioranza di governo insieme a Forza Italia e Fratelli d’Italia) che per certi versi è uno degli emblemi della volontà della casta di mantenere e, se possibile, irrobustire certi privilegi, lei che nel periodo berlusconiano è stata una delle principali artefici delle famose leggi ad personam (quelle, per intenderci, che servivano per difendersi dai processi evitandoli).
Avevamo sottolineato allora che quella scelta aveva un significato preciso che ora appare sotto gli occhi di tutti nella sua più assoluta chiarezza. Ma che era parso chiaro, a chi voleva vedere, già nei mesi successivi e in virtù di altre vicende simili. Basterebbe pensare alla vicenda dei 49 milioni di euro della Lega, al modo in cui Salvini (per altro sfruttando una legge del governo Renzi…) ha salvato Bossi, riproponendo per giunta un modello tanto in voga nella prima repubblica ai tempi dell’esplosione di Tangentopoli (tutte le responsabilità al cassiere del partito, nessuna al politico o al segretario…).
Ma potremmo aggiungere anche il fatto, in qualche modo legato a questo aspetto e al concetto più ampio di onestà, che si è accettato senza alcun problema che nella compagine di governo entrassero a far parte personaggi con condanne giudiziarie passate (ad esempio il sottosegretario Siri ha patteggiato un anno e 8 mesi per bancarotta fraudolenta). Ora la vicenda di Salvini (che, dopo aver sfidato giudici e tribunali, si è “raccomandato” ai senatori per evitare il processo…) è la più evidente e clamorosa dimostrazione che la casta resta più solida che mai e che i suoi privilegiati appartenenti restano “intoccabili”, anche di fronte alla legge.
In questa sede poco ci interessa delle probabili conseguenze politiche che avrà per il M5S quello che molti hanno vissuto come un vero e proprio tradimento (ma che non arriva inatteso perché annunciato da un evidente allentamento e da un percorso fatto di veloci retromarce iniziato da tempo). E’ molto più interessante, invece, constatare come non solo nella sostanza la terza repubblica, per quanto riguarda l’intoccabilità della casta, è perfettamente identica alle altre due ma, addirittura, ripropone anche gli stessi modelli nella ricerca di improbabili sotterfugi, di ipotetici cavilli che possano in qualche modo giustificare l’ingiustificabile, che possano far credere che in questo caso si tratta davvero di qualcosa di differente.
Impossibile, ad esempio, non vedere come la paradossale affermazione fatta nei giorni scorsi dal ministro della giustizia Bonafede (“qui c’è uno che praticamente ha fatto un reato non per se me per gli altri”) assomigli sinistramente a quella dell’allora ministro Scajola (“mi hanno comprato casa a mia insaputa”) nella vicenda che riguardava l’appartamento con vista sul Colosseo. Così come i penosi tentativi di fare inopportune distinzioni, sostenendo che in questo caso non era in discussione l’immunità ma una cosiddetta “esimente”, cadono di fronte ad una duplice elementare considerazione.
La prima, già da sola sufficiente, è che quando nel 2016 nell’identica situazione di Salvini si è trovato l’allora ministro Alfano (anche se poi il suo caso non è arrivato in fondo, è stato archiviato dai giudici prima di chiedere un’eventuale autorizzazione a procedere al Parlamento) né Di Maio né qualcun altro del M5S si è minimamente preoccupato di fare la distinzione che invece propongono ora ma, anzi, all’epoca sostenevano che un ministro non avrebbe neppure dovuto attendere l’eventuale autorizzazione del Parlamento ma avrebbe dovuto dimettersi immediatamente e affrontare l’eventuale processo.
La seconda è che non è certo una questione inerente il termine giuridico più appropriato per la situazione, quanto il concetto (cardine del pensiero grillino fino a qualche mese fa) che i politici (siano essi parlamentari che ministri) devono essere trattati alla stessa identica maniera dei cittadini comuni di fronte alla legge. Invece il voto su Salvini (che dovrà essere confermato dall’assemblea del Senato) ha confermato che, passano gli anni, cambiano i governi, ma gli appartenenti alla casta restano intoccabili, con tutti i loro più inaccettabili privilegi.