Il drammatico appello lanciato dalla famiglia di Denis Cavatassi, condannato a morte in Thailandia dopo un “processo farsa” e detenuto in condizioni disumane, è stata l’occasione per fare il punto sulla difficile situazione dei 3.288 italiani detenuti in paesi stranieri
La terribile vicenda di Denis Cavatassi, l’imprenditore italiano condannato a morte in Thailandia, ha fatto emergere una realtà poco conosciuta nel nostro paese, quella dei nostri connazionali detenuti in carceri straniere. Sembra difficile da credere, ma in determinate circostanze, in determinati ambiti gli “extracomunitari” siamo proprio noi italiani, privati di ogni genere di diritto e costretti a vivere in condizioni di ignobile disumanità.
La storia di Cavatassi probabilmente al momento è l’esempio più eclatante e più sconcertante ma in condizioni simili si trovano attualmente più di 3 mila italiani. Martedì scorso a Roma sulla vicenda dell’imprenditore italiano si è tenuta una conferenza stampa, promossa da Luigi Manconi del Pd (presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani) con i familiari e il legale italiano dell’uomo, il presidente dell’associazione “Prigionieri del Silenzio” avv. Alessandra Ballerini e il presidente di Amnesty International Italia Antonio Marchesi. Obiettivo della conferenza stampa lanciare un appello al governo perché si interessi concretamente del caso e faccia pressioni per garantire quanto meno i diritti essenziali a Cavatassi. Ma anche fare il punto della situazione degli italiani detenuti all’estero, grazie all’associazione “Prigionieri del Silenzio” che da anni se ne occupa.
L’incubo dell’imprenditore abruzzese (Denis Cavatassi è di Tortoreto) inizia nel 2011. Dopo un lungo periodo come volontario di una ong italiana, si reca in Thailandia per una vacanza. Qui conosce Luciano Butti, titolare di un ristorante distrutto dallo tsunami, in cerca di soci per ristrutturare l’azienda. Cavatassi accetta e decide di rilevare una piccola quota dell’attività, la sua idea è di lavorare in Italia e trasferirsi ogni tanto a Pukhet. Ma in Thailandia Denis trova anche l’amore, conosce la donna che poi diventerà sua moglie e dalla quale avrà anche una bambina e decide di fermarsi a vivere in Asia. Nel marzo del 2011 Butti viene misteriosamente ucciso.
L’imprenditore abruzzese si mette subito a disposizione delle autorità locali per dare un contributo alle indagini per la ricerca della verità ma in poche ore si trova ad essere lui sotto accusa. Viene interrogato senza un traduttore, senza un avvocato, non c’è nessun funzionario dell’ambasciata. Le indagini praticamente neppure vengono portate avanti, non viene interrogato nessuno, non vengono mai ascoltati possibili testimoni, lo staff del ristorante. “Non c’è alcun riscontro, non c’è alcun testimone oculare ma Denis si ritrova ad essere processato” racconto l’avvocato. La sentenza è praticamente scontata, per la giustizia thailandese è lui il mandante dell’omicidio.
“La sentenza di primo grado è scritta in quattro pagine – spiega l’avv. Ballerini – a dimostrazione di quanto siano state accurate le indagini. In questo caso tutto dovrebbe essere nel movente ma nella sentenza neppure si cita il movente. Denis, secondo il tribunale thailandese, ha fatto uccidere Butti ma nessuno ha mai spiegato per quale motivo”. Se il processo è una farsa la sua carcerazione è drammatica. Nel primo mese e mezzo Denis è rinchiuso con i ceppi ai piedi.
“Siamo duecento in una cella che può contenerne meno della metà – scrive in una lettera ai familiari – se di notte mi giro su un fianco non trovo più lo spazio per rimettermi supino, delle condizioni igieniche è meglio non parlarne”. “Quando sono riuscito a incontrarlo sono rimasto inorridito – racconta il fratello Adriano – nel penitenziario ho assistito a scene che avevo visto solo nei film. Ho taciuto molti dettagli anche alla mia famiglia. Tante persone al limite della sopravvivenza. Davide dormiva per terra in una cella di pochi metri quadri, non riusciva nemmeno a stendersi per quanta gente c’era”.
Dopo 5 mesi d’inferno viene rilasciato su cauzione e nell’occasione commette l’errore più grande. Potrebbe tornare in Italia ma non vuole fuggire, vuole dimostrare la sua innocenza nel processo di appello. Che, però, se possibile è una farsa peggiore del primo grado (“le garanzie dell’imputato sono state gravemente e costantemente violate” accusa Manconi). La condanna alla pena di morte viene confermata in secondo grado e Devis torna in carcere, nel cosiddetto “braccio della morte” dove poco meno di 300 persone attendono l’esecuzione della pena. L’ultima parola ora spetta alla locale Corte Suprema ma nel caos della situazione thailandese la sentenza potrebbe arrivare tra qualche mese come tra diversi anni. L’unico aspetto positivo è che in Thailandia sono 8 anni che non si esegue una condanna a morte.
Ma la detenzione in quei luoghi praticamente equivale ad una lenta condanna a morte. La famiglia di Denis spera ancora che venga scagionato ma dopo quanto visto è difficile poter credere nella giustizia thailandese. Per questo si prepara ad ogni evenienza e lancia un appello al governo perché si mobiliti, tuteli i diritti del proprio concittadino. Anche perché l’Italia negli anni ’80 ha siglato un accordo con la Thailandia che permette ai detenuti, una volta terminato l’iter giudiziario, di scontare la pena nel proprio paese. L’obiettivo della famiglia di Cavatassi è, ovviamente in caso di conferma della condanna, proprio questo ma il timore è sui tempi in cui si arriverà alla fine dell’iter giudiziario, potrebbero passare ancora molti anni.
Come anticipato la conferenza stampa è stata anche l’occasione per l’associazione “Prigionieri del Silenzio” di fare il punto sugli italiani detenuti all’estero. Secondo l’ultimo censimento effettuato dal Ministero degli Esteri complessivamente sono 3.288, di cui 687 condannati, 2.576 in attesa di giudizio e 34 in attesa di estradizione.
“Una delle problematiche più gravi sorte è quella della mancanza di una sorta di “gratuito patrocinio” per gli italiani detenuti all’estero – si legge nel dossier dell’associazione – spesso infatti le famiglie di persone arrestate in un paese straniero, oltre ai normali problemi di comunicazione e di ignoranza riguardanti la legislazione locale, si trovano a dover fronteggiare delle spese legali, volte alla salvaguardia del proprio caro, corrispondenti ad un ordine di grandezza superiore rispetto alle proprie realtà economiche. A ciò va aggiunta la necessità di provvedere ai beni primari della persona in carcere ed al suo mantenimento”.
Ma la detenzione in carceri stranieri non è solamente un problema economico ma anche e soprattutto un problema di carattere sociale, visto che nonostante la presenza di uffici consolari spesso, secondo l’associazione, i detenuti italiani vengono sottoposti ad umiliazioni e condizioni di vita non compatibili con il concetto di riabilitazione. Ad aggravare tutto ciò ci sono le difficoltà di comunicazione con gli istituti consolari italiani, le difficoltà linguistiche (la documentazione è sempre redatta nella lingua locale, emblematico il caso di Angelo Falcone e Simone Nobili nel 2007 in India costretti a firmare un documento in Hindi che ovviamente non avevano compreso e che era una piena ammissione di colpa) e le difficoltà di tipo sanitario.
“La promiscuità sessuale – si legge nel documento – le scarse condizioni igieniche e l’alto tasso di violenza tra i prigionieri portano il detenuto che prima dell’arresto non presentava comportamenti a rischio a contrarre malattie particolari come Epatite C, la scabbia ed altre patologie similari” Per non parlare, poi, della mancanza di un’adeguata assistenza medica. Ad aggravare la situazione dei nostri connazionali c’è, poi, il problema della discriminazione di cui sono oggetto molti degli italiani detenuti all’estero. In particolare in alcuni paesi gli italiani soffrono degli stereotipi sul loro conto che negli anni si sono radicati nella mentalità del paese ospite, fattore che spesso determina una vera e propria discriminazione e che finisce per condizionare in maniera determinante le condizioni di detenzione.
Un aspetto che dovrebbe farci riflettere a lungo…Sulla base di questa situazione l’associazione “Prigionieri del Silenzio” propone alcune possibili interventi, a partire dall’istituzione di una figura statale che si occupi degli italiani detenuti all’estero. “Bisognerebbe estendere la figura del “Magistrato di Collegamento” in tutti gli Stati nei quali l’Italia è presente con una autorità consolare” si legge nel documento. Fondamentale, poi, è anche dotare gli uffici consolari e le ambasciate italiane all’estero della giusta disponibilità di fondi. Naturalmente è poi fondamentale fornire assistenza e la corretta informazione anche ai familiari dei detenuti all’estero per fare in modo che i suoi diritti fondamentali vengano tutelati.
Infine l’associazione italiana chiede una revisione della Convenzione di Strasburgo, al momento troppo generica in alcuni punti.