La vicenda e il suicidio assistito (in Svizzera) di dj Fabo riapre le discussioni sull’assenza nel nostro paese di norme sul testamento biologico e sull’eutanasia. Fortemente osteggiata dal mondo cattolico ma vista con qualche perplessità anche in ampi settori medico-scientifici
La triste e drammatica vicenda di dj Fabo (Fabiano Antoniani), che il lunedì 27 febbraio in Svizzera (suicidio assistito) ha messo fine al suo lungo calvario, inevitabilmente ha riportato l’attenzione sull’eutanasia e sul testamento biologico. Termini che continuano ad essere assolutamente tabù nel nostro paese. Al punto che si può quasi considerare un piccolo successo il fatto che almeno è in discussione in Parlamento la legge sul biotestamento (anche se con i tempi lunghissimi tipici del nostro Parlamento e con il concreto rischio di dover ripartire da capo in caso di scioglimento delle Camere prima del termine dell’iter di approvazione della legge). Il problema è che ora, come accade sempre in queste situazioni, si riaccenderanno le discussioni, si invocherà un immediato intervento legislativo per allineare il nostro agli altri paesi “civili” (che, in verità, hanno posizioni differenti, anche se almeno hanno avuto il coraggio di affrontare il problema).
I riflettori resteranno accesi per un po’ di giorni, forse per qualche settimana, poi tutto tornerà nel dimenticatoio fino al prossimo caso simile a quello di dj Fabo. Che, dai racconti toccanti della sua ragazza Valeria (che le è rimasta a fianco fino agli ultimi momenti), di fatto ha smesso di vivere quella dannata notte del 13 giugno 2014. Quando, di ritorno da una serata in un locale di dj set nel Milanese, per chinarsi a raccogliere il cellulare che gli era sfuggito di mano, sbandò finendo con l’auto contro un’altra vettura che procedeva sulla corsia d’emergenza. Un gesto, una situazione che chissà quanti di noi hanno vissuto ma che il fato ha voluto che per Fabiano significasse l’inizio di quella che lui stesso ha definito “una notte senza fine”.
Quello che lui stesso in un video definisce un “ragazzo vivace e un po’ ribelle” si è ritrovato, in seguito a quell’incidente, tetraplegico e cieco. “Non ho perso subito la speranza – raccontava qualche settimana fa al Corriere della Sera – ho provato a curarmi, anche sperimentando nuove terapie, purtroppo senza risultati. Mi sento in gabbia: non sono depresso, ma non vedo e non mi muovo. Sono bloccato a letto”. Da allora, da circa 2 anni, da quando ha perso ogni speranza, ha iniziato la sua battaglia per chiedere di legalizzare l’eutanasia nel nostro Parlamento. “Vorrei poter scegliere di morire senza soffrire” ha sostenuto nell’appello rivolto al Presidente della Repubblica per chiedergli di intervenire presso il Parlamento per far approvare al più presto la legge sul testamento biologico e sul fine vita.
Alla fine ha deciso di recarsi in Svizzera per mettere fine alle sue sofferenze. Una decisione di grandissima dignità, che merita il massimo rispetto. Così come grandissimo rispetto merita chi, in una situazione per certi versi simile a quella di dj Fabo, decide invece che vale ancora la pena di vivere, che l’affetto che lo circonda è comunque una ragione più che valida per assaporare il piacere e il gusto della vita, anche in una situazione drammatica come quella. Ci ha molto commosso, in proposito, il racconto che abbiamo letto, sulle pagine dell’Avvenire, di Matteo, 19enne che non può parlare, non può camminare, non può fare nulla praticamente dalla nascita a causa di un’asfissia. “Noi possiamo pensare e il pensiero può cambiare il mondo” ha scritto nell’appello che aveva rivolto proprio a dj Fabo per convincerlo a recedere dalla sua decisione.
“Anch’io a volte ho pensato di voler morire ma sono davvero felice di non averlo fatto”. Davvero commovente Matteo e la sua straordinaria voglia di vivere, capiamo perfettamente il senso del suo appello ma come si può non dico condividere, ma capire la scelta di dj Fabo? E come è possibile che un paese che vuole definirsi civile non riesce ad affrontare in maniera seria e definitiva argomenti sicuramente molto delicati e di non semplice lettura ma che non si possono continuare ad ignorare, in nome di chissà quale morale. Mi ha molto colpito e confesso di condividere in pieno una riflessione postata ieri su facebook dal presidente del Cup Achille Buonfigli.
“A chi voglia esercitare il proprio libero arbitrio e far cessare le proprie sofferenze – ha scritto – non avendo risorse per andare a farlo all’estero, in questo paese bigotto e ipocrita si offre una ampia gamma di possibilità per ottenere il risultato: andare alla stazione e gettarsi sotto un treno di passaggio (nelle grandi città va bene anche la metropolitana), saltare la ringhiera di un balcone o la spalletta di un ponte, spararsi un colpo di pistola alla tempia, gettarsi con l’auto contro un camion, imbottirsi di barbiturici, aprire il rubinetto del gas. Perché lamentarsi, dunque ? E’ sufficiente che il tutto venga ipocritamente ritualizzato. In fondo che cosa c’è di più degno e onorevole di un suicidio rituale ? Per colpa di una minoranza ipocrita, intollerante e prevaricatrice – perché tali sono i cattolici integralisti in Italia – a cui gran parte dei politici sono proni sperando di poterne trarre vantaggio, bisogna sperare di avere al proprio fianco un medico pietoso che, violando la legge, sia disposto ad aiutarti. Il che accade in un numero di casi molto ma molto più grande di quanto si possa immaginare. Che tristezza !”
Il punto è proprio questo, inutile girare intorno al problema, al bando ogni forma di ipocrisia. Il vero problema è che nel nostro paese è difficile poter serenamente discutere e, soprattutto, legiferare su questi temi perché troppo influente è ancora la componente cattolica. E tutto il mondo cattolico giustamente difende la sacralità della vita che riposa sull’insegnamento evangelico che chiede che sia fatta la volontà del Padre. In questa volontà, che trascende la nostra ed è sempre e sicuramente saggia, anche quando non la comprendiamo, risiede l’accettazione del tratto finale dell’esistenza, anche se il nostro morire è doloroso, anche se assume forme che mortificano la nostra dignità. La vita è un investimento di Dio sull’uomo, la forma più alta della sua volontà creatrice. Lui ce l’ha donata e solamente lui ce la può togliere. Per questo è sacra e l’uomo non ne può disporre.
Questa è la concezione religiosa della sacralità della vita che i vescovi e tutto il mondo cattolico fanno bene a difendere e ribadire. E’ un loro diritto rivendicare con forza la propria posizione (che merita il massimo rispetto ed ha in se una profonda dignità) e nessuno potrebbe mai imporre loro di agire in maniera differente, infrangendo il loro credo religioso. Però, al tempo stesso, non dovrebbe essere neppure giusto che quel dettame debba essere imposto a chi la pensa in maniera differente, a chi non ha questo forte credo religioso e, quindi, vorrebbe poter decidere autonomamente come gestire, in casi di un certo tipo, la parte finale della propria vita. Anche perché l’Italia è una Repubblica laica (lo ha ribadito la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 203 del 1989) e questo significa che lo Stato e la Chiesa non debbono assumere l’uno il punto di vista dell’altro.
Lo Stato non deve farsi tutore di una confessione religiosa né tanto meno praticare le sue scelte in funzione di quella. Quindi la discussione sull’eutanasia deve essere fatta da un punto di vista strettamente laico, almeno per quanto riguarda ciò che deve fare lo Stato. Partendo da questo indiscutibile punto di vista sarebbe opportuno che quanto meno si iniziasse a discutere seriamente del fine vita. Partendo da una doverosa spiegazione. Quando si parla di eutanasia bisogna distinguere tra eutanasia attiva, cioè il decesso provocato da somministrazione di farmaci, e passiva, cioè l’interruzione di cure che tengono in vita il malato. Altra cosa è il testamento biologico, che è in discussione in Parlamento, altra cosa ancora, invece, è il suicidio assistito, un atto autonomo di porre fine alla propria vita con mezzi forniti da un medico. Per quanto riguarda gli altri paesi europei in Belgio e in Olanda l’eutanasia, anche attiva, è addirittura consentita anche per i minori (mentre negli Stati Uniti solo in 5 stati è considerata legale).
In Lussumburgo la legge sull’eutanasia è in vigore dal 2009. In Svezia (dal 2010) e in Germania (dal 2015) è ammessa l’eutanasia passiva, in questo ultimo caso, però, a patto che non avvenga uno scambio commerciale. In Spagna sono ammessi sia il suicidio assistito che l’eutanasia passiva, mentre in Francia solo quella passiva è ammessa in presenza dell’autorizzazione di due medici. In Svizzera è consentito, invece, il suicidio assistito (anche a cittadini stranieri), mentre in Gran Bretagna solo in casi estremi (e rarissimi) il giudice può autorizzare l’eutanasia. Come detto nel nostro paese al momento nulla è consentito.
Da mesi è in discussione in Parlamento la legge sul testamento biologico (cioè i trattamenti che si voglio o non si vogliono fare in caso di impossibilità di esprimere le proprie opinioni), una norma composta da appena 5 articoli. Il primo regola il “consenso informato” e il diritto di rifiutare accertamenti diagnostici o trattamenti indicati dal medico, con la possibilità anche di interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiale. L’articolo 2 riguarda le disposizioni anticipate di trattamento, con la possibilità di indicare un fiduciario per essere rappresentati nelle relazioni con i medici. Il cuore e lo scoglio più duro da superare della legge è l’art. 3 che intende introdurre i Dat, le disposizioni anticipate di trattamento che permettono ad ogni maggiorenne capace di intendere e volere, in previsione di una futura incapacità di autodeterminazione, di esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, ivi comprese le pratiche di nutrizione e di idratazione artificiali.
Il medico è tenuto a rispettare le Dat, a meno che non sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di assicurare la possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Soprattutto, però per evitare in qualsiasi modo che si possa giungere ad una sorta di eutanasia mascherata, l’articolo specifica anche che “il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico assistenziali”. In altre parole il minimo sindacale che, per altro, non è così scontato che possa arrivare all’approvazione, né che se eventualmente accadrà non ci si arrivi con una legge comunque stravolta e resa ancor più restrittiva.
Qualcuno, in realtà, ha provato ad andare oltre, sono state presentate 4 proposte di legge sull’eutanasia che, però, dal febbraio scorso sono ferme in commissione ed è praticamente certo che non verranno messe in discussione nel corso di questa legislatura. Sarà anche vero, come ha ribadito la Corte Costituzionale, che siamo una “repubblica laica”, ma è innegabile che l’influenza della religione in determinate scelte nel nostro paese è ancora molto forte. E sarebbe ipocrita negare che alla base di una certa chiusura ci siano proprio queste pressioni del mondo cattolico. Però non è possibile accettare come ineluttabile il fatto che anche in futuro casi come quello di dj Fabo non potranno avere soluzione se non, appunto, recandosi in Svizzera come ha fatto lo sfortunato dj.
E che nel nostro paese non sarà mai possibile avere anche una minima possibilità di praticare l’eutanasia, sia pure in casi ben determinati e ben limitati. Perché, molto laicamente, è giusto sottolineare che alcune perplessità su un suo utilizzo spregiudicato ed eccessivo arrivano anche e soprattutto dal mondo scientifico. Molto interessanti, a tal proposito, sono le considerazioni, assolutamente laiche e senza alcun condizionamento religioso, del professor belga Etienne Montero, decano della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Namur e presidente dell’Istituto europeo di bioteca. Che, sulla base della sua attività in Belgio nella Commissione federale di controllo, è arrivato ad esprimere delle grosse perplessità, almeno su un utilizzo troppo spregiudicato dell’eutanasia.
“L’eutanasia non è una legge che riguarda solo il paziente in fase terminale – spiega – bensì tutta la società che lo circonda. Il malato la chiede, ma nella sua richiesta vengono coinvolti numerosi altri attori (i medici, i familiari, ecc.). Depenalizzare l’eutanasia ha un impatto sociale fortissimo, dalle conseguenze sociali, giuridiche e politiche incontestabili. In questo è molto diversa dal suicidio, dove il soggetto opera in autonomia. Rendere possibile l’eutanasia significa modificare in maniera essenziale l’arte della medicina, che da arte che aiuta a vivere bene diventa arte che provoca la morte.
Le conseguenze sulla missione di qualunque medico sono incalcolabili. Il rapporto di fiducia tra medico e paziente viene per forza incrinato. Le conseguenze possono essere disastrose anche per le cure palliative: di fatto in Belgio è stato stabilito un nuovo protocollo che considera l’eutanasia parte integrante delle cure palliative, e ciò ispira diffidenza in molti malati gravi. Infine non va sottovalutato il fatto che molte persone fragili (disabili, malati cronici, anziani) si considerano molto più di prima un peso per la società e si sentono in colpa, quasi in obbligo di chiedere l’eutanasia. In una democrazia laica e pluralista, ci sono molti motivi per rifiutare l’eutanasia: la protezione della specificità, dell’integrità morale e dell’immagine della medicina; la protezione delle persone più vulnerabili della società, che è il ruolo specifico del Diritto; il fatto che nessuno può disporre della vita di altre persone (salvo il caso di legittima difesa contro un aggressore ingiusto)”.
Sulla base di simili considerazioni, secondo Montero la risposta appropriata della società e della medicina deve essere evitare ogni forma di accanimento terapeutico ma, al tempo stesso, applicare in maniera professionale le terapie per alleviare il dolore e i sintomi del male in modo da rendere il più gradevole al malato il suo contesto quotidiano, garantendogli un accompagnamento umano di grande qualità. D’altra parte è indiscutibile che oggi la medicina possiede le risorse per rendere sopportabili le peggiori sofferenze fisiche. Ed è opinione diffusa che quando il paziente sperimenta queste terapie e l’accompagnamento umano non chiede più di morire.
Naturalmente tutto ciò richiede competenza professionale, spirito di sacrificio da parte del personale sanitario, qualità di ascolto e capacità di accompagnamento. Cose che, senza ipocrisia, non sempre sono facili da trovare nelle strutture sanitarie italiane. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone la Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva. “Anche al nostro interno c’è una pluralità di opinioni – spiega il responsabile del gruppo di studio sulla bioetica – ma la posizione preponderante e ufficiale è di assoluta contrarietà. Sulla scelta di produrre deliberatamente la morte del paziente la società scientifica è contraria anche perché il nostro lavoro si connota in modo completamente diverso. Certo siamo consapevoli che in Italia manca uno sguardo rivolto verso il percorso finale della vita e vige una marcata medicalizzazione di questo momento. E l’elemento forse più importante, quello della medicina palliativa, è carente”.
Allora, per cercare di arrivare a delle conclusioni, è indiscutibile che in Italia è ora (e ampiamente passata) che si inizi a discutere in maniera laica (pur comprendendo pienamente la posizione del mondo cattolico) , di questi argomenti. Partendo dal presupposto che il compito della medicina deve sempre e comunque essere quello di aiutare a vivere meglio, in ogni fase della vita di una persona, anche quella terminale. E con la consapevolezza che “causare la morte” è decisamente altra cosa rispetto a “non accanirsi ad impedire o comunque ritardare” la morte ormai incombente e ineluttabile di un essere umano.
Ma senza chiudere gli occhi e rifiutare l’idea che, in determinate situazioni, è giusto che il paziente possa coscientemente decidere di non affrontare “una lunga notte senza fine”