L’incredibile storia di un’area del Basso Marino, nel 2006 data in concessione “improrogabilmente” per 6 anni ad un’azienda privata, tra beffe, paradossi, ultimatum ignorati e insegnamenti biblici. Con la sorpresa finale: l’attività svolta in quell’area non è conforme a quanto previsto dal Piano regolatore (verde sportivo)
Un’area pubblica del Basso Marino data in concessione per 6 anni dal Comune nel 2006 e tutt’ora nelle mani di un’azienda privata. Una serie di inviti (a partire dal 2014) a rimuovere il materiale scavo accumulato in quell’area sempre ignorati dal concessionario, senza che il Comune provvedesse a mettere in atto le azioni previste (e minacciate) in caso di inadempienza. L’ultimo (si fa per dire) ultimatum scaduto da oltre 5 mesi e, ovviamente, disatteso dall’azienda privata, ancora una volta nel silenzio e in assenza di qualsiasi intervento o provvedimento del Comune.
In altre parole l’ennesima storia di “mala amministrazione” che evidenzia ancora una volta la situazione di caos e di precarietà in cui versa un Comune che avrà pure degli amministratori bravissimi ed efficientissimi (sindaco e assessori praticamente ce lo ripetono un giorno si e quell’altro pure…) ed un esercito di dirigenti comunali praticamente infallibile, in grado di concretizzare ogni anno oltre il 90% degli obiettivi fissati (tanto da meritarsi maxi premi che si aggiungono a stipendi altrettanto consistenti), ma che ormai da 5 anni non riesce a riprendersi e neppure a riportare alla condizione originaria quell’area pubblica. Merito del consigliere comunale Castiglia se questa incredibile vicenda, che si stava trascinando da anni nell’indifferenza e nel più assoluto silenzio (e, d’altra parte, l’amministrazione comunale non aveva certo alcun vantaggio a farla emergere), è venuta fuori.
A definirne i contorni, però, sono un paio di atti comunali (l’ordinanza dirigenziale n. 55 del 23 febbraio 2016 e quella n. 87 del 22 marzo 2016) che ripercorrono buona parte dell’iter della vicenda e fotografano una situazione che lascia a dir poco interdetti. Come racconta lo stesso Castiglia tutto inizia nel marzo 2006 quando il Comune (allora guidato dal sindaco Celani) concede alla Sato srl l’utilizzo di un’area di 9700 mq per deposito merci e parco macchine.
“All’art. 2 della concessione – afferma Castiglia – si dice che avrà durata di anni 6 con decorrenza dalla data del presente atto e cesserà improrogabilmente alla naturale scadenza”. Il termine “improrogabilmente” non lascia spazio a margini, il 5 marzo 2012 la concessione finisce e l’area dovrebbe tornare al Comune. “Quando arriva a scadenza siamo già in pieno periodo della prima amministrazione Castelli – spiega Castiglia – ed il sindaco cosa fa? Niente, lascia trascorrere più di 2 anni e il 14 luglio 2014 rinnova per altri tre anni la concessione scaduta il 5 marzo 2012 e tacitamente prorogata fino al 31 dicembre 2013”.
Ma come è possibile che si possa prorogare tacitamente (e poi addirittura rinnovare per ulteriori 3 anni) una concessione che doveva cessare “improrogabilmente” (secondo il vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli: improrogabilmente, senza possibilità di ritardo o di proroga) alla scadenza naturale,quindi il 5 marzo 2012? Magie che possono accadere solo nel favoloso mondo che è diventato da alcuni anni il Comune di Ascoli, dove lo scorrere del tempo e le scadenze temporali sono ormai concetti antichi e non più in voga, dove anche la lingua italiana assume nuove sembianze, acquisisce nuovi e rivoluzionari significati. Ma c’è dell’altro, anzi analizzando l’ordinanza dirigenziale n. 55 del 23 febbraio 2016 (“Riduzione in ripristino dello stato dei luoghi – Area in località Basso Marino del Tronto”) c’è molto altro.
Innanzitutto emerge come, al momento del rinnovo della concessione nel luglio 2014, l’amministrazione ha scoperto che su quell’area l’azienda concessionaria ha effettuato un deposito di materiale da scavo di “materiale lapideo-terroso” (in altre parole terra e pietre) di cui non si conosce l’esatta composizione. Per questo al momento del rinnovo della concessione (luglio 2014) viene messo per iscritto (art. 7) che “ il concessionario si impegna a smaltire le terre da scavo che vengono provvisoriamente stoccate presso l’area oggetto di concessione al fine di mantenere inalterata la conformazione dell’area e restituirla all’amministrazione comunale nelle stesse condizioni nelle quali è stata concessa nell’anno 2006. Risultando allo stato attuale un eccessivo accumulo di terre da scavo, le stesse dovranno essere smaltite entro il primo anno di concessione. A tal fine l’amministrazione comunale si riserva di effettuare i dovuti controlli sugli accumuli di terra e sulla relativa provenienza richiedendo, eventualmente, anche le relative analisi chimiche”.
Tutto molto chiaro, il Comune evidenzia che ci sono materiali da scavo che non dovrebbero esserci e non rientrano nella concessione, di conseguenza impegna il concessionario a smaltire il tutto entro luglio 2015. “In caso contrario – spiega Castiglia – scatta, in base all’art. 6 della concessione, la possibilità di escussione di una polizza fideiussoria di 25 mila euro emessa dal Concessionario a garanzia di tutti gli adempimenti”. Tra l’altro, come risulta dal Verbale della Conferenza dei Servizi, tale deposito che non è previsto e non dovrebbe esserci viene effettuato su un’aera ad elevato rischio esondazione (E3), situata a poche decine di metri dall’alveo naturale di scorrimento del Tronto.
Il paradosso, però, è che mentre da un lato il Comune evidenzia che quei materiali non devono esserci e devono essere tolti, dall’altro all’art. 1 della nuova concessione inserisce l’utilizzo dell’area non solo come deposito merce e parco macchina ma anche per lo stoccaggio di materiale da scavo. Una sorta di sdoppiamento di personalità, si chiede la rimozione ma si concede la possibilità di stoccaggio di quei materiali. Sembra uno scherzo, invece è la triste realtà.
Così come è realtà il fatto che il tempo per questa amministrazione comunale è un concetto assolutamente relativo. Infatti trascorre un anno, si arriva a luglio 2015 (termine ultimo entro il quale il materiale di scavo non dovrebbe esserci più) ma non accade nulla. Poi, con un comportamento che sembra quasi schizofrenico, 5 mesi dopo il Comune si ricorda di quanto sta accadendo in quell’area. Così il 9 dicembre 2015 l’Ufficio Ambiente convoca per il 17 dicembre una conferenza di servizi con la Provincia, l’Autorità di Bacino Interregionale Fiume Tronto, l’Arpam, il Settore Patrimonio e, naturalmente, la Sato per fare il punto della situazione. Ma qualche giorno prima della conferenza stessa, il 14 dicembre 2015 con una nota del Servizio Patrimonio la Sato viene diffidata “essendo trascorsi diciassette mesi dalla stipula del contratto di concessione, a porre in essere entro novanta (90) giorni le prescrizioni in esso contenute nonché a presentare entro dieci (10) giorni il piano di smaltimento del materiale accumulato da sottoporre alla valutazione dello scrivente Servizio e all’Ufficio Ambiente”.
La nuova scadenza è fissata per febbraio 2016 e i termini del Comune questa volta sembrano perentori visto che si fa presente che “l’inottemperanza a quanto prescritto comporterà l’attuazione delle procedure previste contrattualmente” cioè l’escussione della fidejussione da 25 mila euro, l’effettuazione dei lavori da parte del Comune ma messi in carico all’azienda e l’immediata rescissione della concessione. La Sato, che fino ad allora si è limitata ad osservare i comportamenti altalenanti del Comune, questa volta risponde e con una nota del 28 gennaio 2016 sostiene (contro ogni evidenza, certificata anche da inequivocabili foto della situazione di quell’area nel 2006 e a fine 2014) che “non ha alterato in alcun modo la conformazione dell’area oggetto di concessione e che la stessa area si trova nelle stesse condizioni in cui è stata consegnata dal Comune”.
L’amministrazione comunale, però, questa volta sembra far sul serio e, dopo aver verificato che non è stato adempiuto a quanto intimato con nota del 14 dicembre 2015, con l’ordinanza 55 del 23 febbraio ordina alla Sato di “rimuovere gli accumuli di terra che hanno alterato la conformazione dell’are ripristinando lo stato dei luoghi entro 30 giorni dalla notificazione della presente ordinanza, pena la revoca della concessione”. Inoltre dispone che “ in caso di inadempienza alla presente ordinanza, le opere di riduzione in pristino, senza ulteriore avviso, saranno eseguite d’ufficio e le relative spese poste a carico dell’inadempiente, salvo l’escussione della polizza fideiussoria bancaria di 25.000 euro per mancato adempimento degli obblighi previsti nell’atto di concessione”.
Siamo ormai alla stretta finale, almeno così sembra. Un’illusione che, però, svanisce il 22 marzo (praticamente alla scadenza dei 30 giorni) quando dal Comune arriva l’ordinanza n. 87. Dalla quale, pur se non viene detto espressamente, si capisce che la situazione è rimasta immutata, la Sato ancora non ha fatto nulla. Bisognerebbe, quindi, attendersi che il Comune dia il via a tutti i provvidementi previsti espressamente in caso di inadempienza. E, invece, nell’ordinanza si legge che la Sato il 15 marzo 2016 (ad una settimana dalla scadenza…) “ha trasmesso ufficialmente un’ ipotesi di ripristino dell’area prevedendo la realizzazione di una gradonatura da eseguirsi in un arco temporale di 30/40 giorni” ed inoltre “propone una parziale sistemazione dell’area in oggetto non prevedendo un totale ripristino della situazione precedente ai contratti di concessione stipulati negli anni 2006 e 2014”.
A quasi 2 anni dal primo ultimatum la Sato, ad appena una settimana dalla scadenza, si diverte a cambiare le carte in tavola, proponendo una soluzione assolutamente al ribasso e inaccettabile per il Comune. La prima cosa che viene in mente è che i responsabili di quella società o sono troppo temerari o sono troppo sicuri che tanto l’amministrazione comunale non farà mai quello che da 2 anni minaccia di fare. La risposta esatta sembra essere la seconda. Infatti il Comune, dopo aver finto di voler mostrare i muscoli sostenendo che bisogna ripristinare la situazione che c’era al momento della prima concessione, ordina alla Sato di “effettuare i lavori entro 120 giorni dalla notificazione dell’ordinanza, iniziando gli stessi entro 30 giorni dal ricevimento della presente ordinanza”.
Una vera e propria farsa, la concessionaria non rispetta per l’ennesima volta l’ultimatum, “scherza” con il Comune proponendo, a ridosso della scadenza, un accordo al ribasso e, per tutta risposta, l’amministrazione comunale non solo non mette in atto i provvedimenti minacciati ma, addirittura, allunga da 30 a 120 i termini della nuova scadenza. Ma non basta, nel pieno rispetto degli insegnamenti biblici il Comune “porge l’altra guancia”, alleggerendo notevolmente i provvedimenti (che tanto non vengono mai attuati) da adottare in caso di inadempimento. Scompare, infatti, l’escussione della polizza fideiussoria da 25 mila e anche l’immediata rescissione della concessione, confermando solamente l’effettuazione d’ufficio delle opere di ripristino con le relative spese poste a carico del concessionario.
Dire che in pratica il Comune “si cala le braghe” è addirittura riduttivo. Il nuovo ultimatum ( o forse sarebbe meglio chiamarlo, come fa il consigliere Castiglia, “penultimatum”) scadeva il 21 luglio scorso. I bookmekers già ai tempi dell’ultima ordinanza, però, neppure quotavano il fatto che la Sato ancora una volta non avrebbe fatto nulla. E, ovviamente, così è stato. “La situazione resta esattamente com’è da molti anni a questa parte – commenta amaramente Castiglia – il Comune prende atto, ordina, dispone e… resta a guardare. L’ultimo penultimatum è scaduto da sei mesi, forse nel frattempo è stato tacitamente rinnovato, chissà”.
Davvero incomprensibile, anzi inaccettabile che il sindaco e l’amministrazione comunale, pur prendendo atto di una situazione non regolare e dopo aver ordinato per ben 4 volte di sanare la situazione stessa, non si senta in dovere di fare nulla, di mettere in atto quanto previsto anche e soprattutto per tutelare gli interessi della collettività. Si perché, a rendere il tutto ancora più sconcertante, è che in quell’area, secondo le norme comunali, non si potrebbe svolgere l’attività che invece viene effettuata.
“Oltre ad essere ad elevato rischio esondazione – afferma Castiglia – l’area è destinata a verde sportivo. Lo dice l’amministrazione stessa nel verbale della conferenza dei servizi del dicembre 2015: si evidenzia la non conformità dell’attività svolta nel sito con la destinazione urbanistica definita dal vigente Piano regolatore delle aree per lo sviluppo industriale che nella particella in esame prevede una destinazione a verde sportivo (art. 9 del Prasi zona 6 verde sportivo)”.
Siamo davvero alla follia, al di là del fatto che sono passati quasi 6 mesi dall’ultimatum, quest’ultima scoperta “taglia la testa al toro”. Il Comune dovrebbe semplicemente effettuare quegli interventi, facendoli pagare al concessionario, per poi riprendersi l’area e utilizzarla secondo le previsioni del Piano regolatore. “Perché Castelli ancora non si muove?” domanda Castiglia. Una domanda che meriterebbe un’immediata risposta, nella speranza che anche questa volta il primo cittadino non ci racconti la solita favoletta del terremoto…