Il tradimento considerato un’attenuante, la Corte d’Appello di Roma riduce da 30 a 16 anni la condanna ad un 43enne che aveva ucciso, dandole fuoco, la propria compagna. Una sentenza scandalosa ma, purtroppo, non nuova, visto che negli anni passati pronunciamenti non meno vergognosi erano venuti dalla Cassazione e da alcuni suoi giudici
Nei giorni in cui stampa e web hanno fatto a gare per trovare gli slogan, le immagini e la frasi più ad effetto per celebrare la giornata mondiale contro la violenza sulle donne (25 novembre), a quasi tutti gli organi di informazione è sfuggita una notizia a dir poco sconcertante. Il 18 novembre scorso la Corte d’Appello di Roma ha deciso di ridurre da 30 a 16 anni la condanna nei confronti di Felix Haidau, il 43enne rumeno che il giorno di Natale 2014 aveva dato fuoco alla sua compagna. La donna, Carmen Saran, era poi deceduta al Sant’Eugenio dopo un mese di atroci sofferenze.
Una terribile aggressione avvenuta in una baracca in via Sepino, a Lunghezza, dove la coppia viveva. L’uomo era gelosissimo e sospettava che la donna lo tradisse. Così, dopo una violenta discussione, le versò addosso una tanica di benzina e le diede fuoco. Ai medici del Sant’Eugenio, dove fu ricoverata la donna, il 43enne disse che era stata un’esplosione provocata da una perdita di gas a ridurla così. Una versione da subito ritenuta poco credibile dagli investigatori ai quali, poi, il 43enne disse che la donna aveva bevuto per sbaglio da una bottiglia piena di benzina, scambiandola per vino, proprio mentre stava fumando. Anche questa versione, ovviamente, fu ritenuta assolutamente inattendibile e l’uomo fu arrestato , inizialmente con l’accusa di tentato omicidio.
Un mese dopo, però, la donna morì e l’accusa nei confronti del rumeno si è trasformata in omicidio. Il successivo processo, presso il tribunale di Roma, si era concluso con la condanna a 30 anni di reclusione. Poi, però, il 18 novembre scorso è arrivata la sentenza shock della Corte di appello di Roma, con la condanna ridotta ad appena 16 anni di reclusione. Motivo? La difesa è riuscita a dimostrare che i sospetti dell’uomo erano giustificati, la donna (almeno a giudicare da quanto sarebbe emerso in appello) in effetti lo tradiva. E questo a quella Corte (che evitiamo di definire per non incorrere in denunce) è sembrato più che sufficiente per stabilire che non è più valida l’aggravante dei futili motivi.
Quindi secondo quei giudici il tradimento è un motivo serio, importante e rilevante (secondo il vocabolario della lingua italiana questi sono i cosiddetti contrari di quel termine) per giustificare un omicidio così violento e brutale come quello commesso da Felix Haidou. Che, poverino, bisogna capirlo, ha “solamente” dato fuoco a quella donna che, in fondo, quasi se l’è cercata, visto che lo tradiva. Per questo “merita” un bello sconto di 14 anni e magari, perché no, i giudici potevano proporre per lui una bella menzione speciale per aver “vendicato” l’onore maschile ferito. Al di là dell’amarissima ironia, siamo alla follia, è davvero riduttivo definire vergognosa quella sentenza che, in un attimo, spazza via e in un certo senso rende praticamente inutili certe battaglie, certe campagne informative, la mobilitazione di tutto il sistema dell’informazione e del web per promuovere iniziative contro le violenze sulle donne, per costruire una differente cultura, un differente modo di sentire e di vivere determinati rapporti.
Come si può ritenere un motivo rilevante e serio per giustificare un omicidio così violento, al punto da far scattare una consistente riduzione della pena, un tradimento? Al bando ogni ipocrisia, sostenere che il tradimento non configura un “futile motivo” ma rappresenta, anzi, una giustificazione importante in pratica è un po’ come sostenere che, in fondo, Carmen se l’è andata a cercare, che in qualche modo è in parte corresponsabile di quanto accaduto, anche del suo martirio, anche del suo dolorosissimo calvario che è poi terminato con la sua morte. Senza scendere ancora più in basso, magari chiedendosi se lo stesso metro, se lo stesso giudizio si potrebbe applicare anche nel caso in cui è l’uomo a tradire, è lecito chiedersi secondo quale criterio o, meglio ancora, secondo quale norma di legge, quel giudice ha potuto ritenere meno grave e meno socialmente riprovevole quell’omicidio.
E, ancora, in questa distorta visione del rapporto tra un uomo e la sua compagna, se il tradimento può in qualche modo giustificare (al punto da attenuare la colpa) un omicidio così violento, una camicia stirata male può quindi essere considerata meritevole di qualche dura reprimenda e, magari, anche di due schiaffoni? E il limite che si può raggiungere in caso di pasta scotta quale sarebbe? Ci spieghi bene quel giudice, che ha ritenuto la rabbia dell’uomo meritevole di un’attenuante, quale sarebbe nel suo modo di vedere e di interpretare la legge la graduatoria degli orrori, cosa può o non può fare una donna per evitare di meritarsi certi abusi, certe violenze da parte del compagno (o del marito).
Invece di tanti bei slogan, delle immagini e delle frasi ad effetto postate sui social, di questo si sarebbe dovuto discutere il 25 novembre scorso, se un giudice, in una visione medievale del rapporto di coppia e del ruolo all’interno di esso della donna, può permettersi la licenza di considerare un’attenuante, un qualcosa che rende meno crudele l’omicidio, il semplice tradimento. Per quanto grave magari sarà un caso singolo, penserete. E invece non è così perché la storia degli ultimi anni del nostro paese è piena di questi comportamenti, di questo inaccettabile tentativo di giustificare certe violenze tipicamente maschili con un comportamento “poco consono” da parte delle vittime.
Qualche mese fa, ad esempio, praticamente l’intero paese di Melito di Porto Salvo, con il sindaco e il parroco in testa, si sono schierati, con le motivazioni più ignobili, in difesa di un gruppo di 9 ragazzi tra i 18 e i 30 anni che per circa due anni ha barbaramente violentato una ragazzina che, quando è iniziato il lungo incubo, non aveva neppure 14 anni. “Se l’à andata a cercare” “Le vere vittime sono i ragazzi” “Per come si vestono le ragazze oggi se le vanno a cercare” le frasi più ricorrenti ascoltati in quel paesino calabrese, con il sindaco e il parroco del paese che, addirittura, se la sono presa con l’informazione che “non doveva fare uscire nei dettagli una simile notizia” e che così “rischiano di offendere il buon nome del paese”.
Ma per certi versi di tenore simile è l’incredibile atteggiamento palesato, nei giorni precedenti il 25 novembre, da uno dei più noti quotidiani nazionali che, piuttosto di approfondire e parlare del grave problema delle violenze sulle donne nel nostro paese, ha addirittura tentato di far passare il messaggio che simili violenze le subiscono anche gli uomini. “Quando a subire le violenze sono gli uomini” pubblicava il 23 novembre, a tutta pagina, quel quotidiano raccontando storie di violenze subite in casa o sul posto di lavoro. E, come se non bastasse, nei giorni seguenti si sono succeduti interventi di pseudo esperti sociologi e psicologi che corredavano quello che per quel quotidiano era un argomento da sviluppare con tesi al limite del “farneticante”.
Come, ad esempio, che in realtà nella società moderna l’aggressività è tipicamente femminile o come parlare solamente di “femminicidio” sia riduttivo e fuorviante. Poi, però, ci sono i dati, quelli ufficiali e insindacabili, che evidenziano come dal 2010 ad oggi sono ben 20 gli uomini uccisi dalle donne nel nostro paese. E, nello stesso periodo, quante sono le donne che hanno fatto la stessa fine per mano di mariti, compagni, spasimanti, ex? Ben 1054, “appena” 54 volte in più rispetto agli uomini, con una media di quasi 158 omicidi all’anno (quasi uno ogni due giorni).
Certo i dati di quest’anno sono un po’ più confortanti, al 31 ottobre erano “solamente” 107 gli omicidi del genere registrati ed è presumibile che alla fine del 2016 si registrerà una diminuzione rispetto a quella media. Ma credo che siano ampiamente sufficienti quei numeri per capire di come sia infondato e strumentale cercare di spostare l’attenzione, di allargare il discorso ad una presunta globalizzazione della violenza nei rapporti di coppia che, invece, purtroppo non esiste. Possiamo sforzarci a trovare tantissime cose che non vanno nelle donne di oggi, possiamo imputare loro tanti difetti e tante colpe, ma bisognerebbe avere un minimo di onestà intellettuale per ammettere che l’istinto a predominare fisicamente, la violenza che spesso esso genera, sia che si esplichi fisicamente che sessualmente, è tipicamente maschile.
E, quel che è peggio, è che ancora oggi si cerca in qualche modo di trovare una giustificazione, un qualcosa che tolga un po’ di colpa, un po’ di responsabilità all’uomo per attribuirne una parte alla donna, che si prova a far passare come corresponsabile con i suoi comportamenti sbagliati e provocatori. Così per quel giudice della Corte di Appello di Roma c’è il tradimento che “attenua” la responsabilità dell’atroce delitto, per gli abitanti di Melito di Porto Salvo c’è la vivacità e il modo di vestire di una ragazzina di neppure 14 anni (vengono i brividi solo a parlarne) a giustificare 2 anni di violenze sessuali. Uno schifo, una vergogna ma, purtroppo, nulla di nuovo.
Qualche anno fa, ad esempio, il giudice della Cassazione Corrado Carnevale sosteneva che ormai parlare di “femminicidio” era solo una moda con la quale le donne cercavano di coprire quella che per lui era una sorta di colpa grave delle donne stesse, cioè il modo di vestire troppo succinto e provocante. Una tesi immediatamente ripresa e fatta propria dal sito “fondamentalista” cattolico Pontifex e addirittura messa per iscritto da un ignobile volantino affisso in chiesa dal parroco di San Terenzo a Lerici, don Piero Corsi, che accusava direttamente le donne di provocare la violenza degli uomini.
D’altra parte, però, Carnevale non rappresentava certo un’eccezione per quanto riguarda la Cassazione. Che nel 2006 si macchiò di una sentenza se possibile ancora più ignobile e vergognosa di quella del 18 novembre scorso della Corte di Appello di Roma, ritenendo legittimo il concetto (espresso in una sentenza) che stuprare una donna non più vergine porti ad una condanna più lieve, con l’aberrante motivazione che per una donna che ha già “copulato” (anche se solamente con il proprio marito o con il proprio compagno) il trauma della violenza dovrebbe risultare meno violento. Un abominio di fronte al quale appare addirittura meno sconvolgente la celebre sentenza del 1999, sempre della Cassazione, che annullò una condanna per stupro di 45enne perché la vittima (una ragazza appena 18enne) indossava i jeans e, dunque, l’uomo non avrebbe potuto sfilarli senza il suo consenso.
Verrebbe da fermarsi qui tanto è il voltastomaco che provoca anche solo ricordare certe pagine a dir poco vergognose della giustizia italiana. Ma è gusto ricordare anche il contributo che a questa indecenza hanno fornito alcuni sindaci, a partire del sindaco della capitale Gianni Alemanno. Che nel 2011, in una pubblicazione che doveva essere dedicata alla sicurezza delle donne romane (“Vademecum per la tua sicurezza”) , ripeteva la tipica raccomandazione sessista “Evita di vestirti in modo vistoso e provocante”.
Ancora peggio, se possibile, ha fatto il sindaco di Castellammare di Stabia nel 2010 che, in un imbarazzante regolamento di polizia municipale, addirittura per motivi di sicurezza arrivò a vietare minigonne ed abiti succinti. In pratica per questi primi cittadini, così come per quei giudici, è sempre il solito allucinante discorso. Visto che noi uomini siamo tutti animali, incapaci di controllarci, di trattenere i nostri istinti e di reagire in maniera civile alle delusioni (o tradimenti), spetta alle donne premunirsi evitando di vestirsi in maniera da provocare i nostri istinti animaleschi e di deluderci, tradendoci o respingendo. E se proprio non riescono a trattenersi, se proprio non riescono ad evitarlo, allora devono mettere in conto che possono rischiare di subire violenza, fisica o sessuale…